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"La libertà dei piccoli per difendersi dal mondo adulto", di Mariapia Veladiano

«Quanto libero può essere un bambino a scuola» è ovviamente una domanda tendenziosa. Di quelle che vogliono scatenare risse. Perché a scuola si va per imparare, e se una bambina si rifiuta di fare il disegno delle foglie il lunedì mattina dalle dieci alle undici, in qualche modo disturba la propensione più o meno spontanea degli altri bambini a obbedire alla consegna, e in una interpretazione piuttosto circoscritta del suo bene, disturba anche il suo processo di apprendimento dell’arte del disegno e quindi è una libertà solo apparentemente innocua la sua e a scuola diventa un problema da affrontare se si ripresenta.
E se poi è lo studente delle superiori a mancare un giorno sì e uno no dalle lezioni, anche questa è una libertà pericolosa, il perché qui non è così evidente e luminoso, ma il fatto è tanto grave da farlo escludere dallo scrutinio per legge, bocciato d’ufficio. Quali che siano i risultati scolastici.
Poi ci sono le emozioni. Anche la domanda “quali emozioni possono abitare a buon diritto le aule di scuola” è tendenziosa. Fare un elenco è stupido, entrano tutte, insieme alle persone che la frequentano. Sollevare un mare di distinguo, tipo: amichevole sì, affettuoso sì, grato sì, ribelle meglio di no, o con moderazione, odioso forse, però solo in privato, amichevole sì anche in pubblico purché si agisca poco poco, e già ci si trova sommersi dal politicamente scivoloso. Ma da Daniel Goleman in poi anche i non addetti sono più o meno informati circa l’esistenza dell’intelligenza emotiva, che ha a che fare con la capacità di affrontare con successo la vita e anche la scuola, e infatti la tesi che le abilità emozionali siano strategiche per i risultati scolastici ha portato a un investimento importante sui programmi di Social Emotional Learning (SEL) all’interno dell’istruzione in ambito anglosassone. Con risultati, dopo decenni di monitoraggio, sconfortantemente diseguali, discussi, eclatanti e deludenti a seconda dell’indagine o dell’esperienza che si va a scegliere per parlarne.
Ci son questioni così grandi dentro. C’è il punto di vista bambino ad esempio: la sua individualità, se sconfina la composta vita d’aula, va coltivata oppure normalizzata? E poi, un’educazione alle emozioni corre sempre il rischio di esprimere una visione standardizzata di gestione delle emozioni, addirittura funzionale banalmente al mondo di scuola, dove i tagli di organico rendono più conveniente la disciplina e quasi ingestibile le diversità. Picchiare, far danni alle cose, dire parolacce e impedire la lezione, per semplicità e un po’ all’ingrosso si può dire che non sono problemi né di libertà né di emozione, ma di maleducazione, almeno fino a una certa età. Poi è delinquenza e basta, sempre parlando all’ingrosso, perché a pensarci poi la scuola raccoglie quel che il mondo le consegna e a volte è proprio difficile mettere il confine fra la reazione adolescenzialmente sgangherata a situazioni di vita ferita e il reato ben deliberato.
Di sicuro le emozioni sono tema di scuola, insieme alla libertà che ciascuno, fin da bambina e da bambino, ha il diritto di vedere riconosciuta, libertà di essere unico e di difendersi. E di ribellarsi a manipolazione, depressione, frustrazione, stanchezza, sfiducia del mondo adulto come ce lo descrivono le indagini e come ce lo consegna la letteratura oggi. Perché è evidente che le emozioni a scuola sono anche quelle degli adulti, eppure non c’è programma di formazione dei docenti che preveda un lavoro sulle proprie emozioni d’aula e su come fare a fidarsi e affidarsi all’empatia, che è sentire quel che sente chi ci sta davanti, e così entrare in relazione, senza perdersi. Bisogna non perdersi quando si è in aula.
Sulla scuola tutti hanno da dire ed è giusto, perché la scuola è il bene di tutti. Però in virtù dell’essere stati studenti o di avere figli studenti, il dire di scuola è spesso un dire (troppo) assertivo.
Beati quelli che son sicuri di quel che si deve fare.
Pazzi quelli che son sicuri di quel che si deve fare.

La Repubblica 20.01.14

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La scuola delle emozioni. Bambini Lezione e sentimento
di Massimo Vincenzi

Bambini a lezione di sentimenti. Succede in America, dove gli alunni possono imparare a riconoscere e gestire felicità e rabbia Rabbia, felicità, malinconia o amore. Come riconoscerli, gestirli e infine usarli per migliorare. Un compito arduo per gli alunni e gli insegnanti che da qualche tempo in America si trovano alle prese con una materia in più, forse la più difficile: l’educazione emotiva
È mezzogiorno, c’è finalmente un bel sole quasi caldo, dopo i giorni della tempesta polare i bambini possono mettere il naso fuori dalle loro classi. Sono una ventina, stanno in cerchio tenendosi la mano nel cortile della Corlears School a Chelsea nella parte bassa di Manhattan. In mezzo a loro LaTasha, la maestra, parla con tono quasi musicale: «C’è qualcosa che volete raccontare? Qualcosa che non va come vorreste a casa o a scuola? O con i vostri amici?». Tim è intabarrato dentro un giubbino troppo largo, ha otto anni, abbassa lo sguardo e alza un filo di voce: «A me non piace mio fratello più grande: mi ruba sempre i giochi».
Vengono assegnati i ruoli: uno più alto degli altri interpreta il “cattivo” e in mezzo al cerchio va in scena la riproduzione del “furto”. La maestra guida tutte le fasi sino a quando Tim non ritrova il sorriso, il finto fratello chiede scusa e tutti si dondolano avanti e indietro nel loro palcoscenico immaginario.
Quello di La Tasha non è un esperimento empirico ma segue alla lettera uno dei tanti programmi per “quella materia fondamentale che ancora mancava nelle scuole americane”: l’educazione emotiva. Ovvero insegnare ai bambini a gestire quello che capita loro attorno, comprendere i propri sentimenti, quelli degli altri, sviluppare l’empatia, domare rabbia e nervosismo. La piccola rivoluzione che mette al centro della didattica l’intelligenza emotiva, secondo la definizione del best seller dello psicologo Daniel Goleman, si appoggia su basi scientifiche e sta conquistando sempre più consensi. Marc Brackett, dell’università di Yale, è uno dei più attenti studiosi del fenomeno: “Dopo anni di ricerche ed esperimenti non ci sono pi ù dubbi: sappiamo che le emozioni possono migliorare o ostacolare la capacità di apprendimento”, spiega ad un convegno. Il concetto è semplice ma non scontato: se un alunno ha problemi a casa certo faticherà a concentrarsi sui libri, se litiga con i compagni non riuscirà a stare attento, se è sospinto dall’euforia o zavorrato dalla tristezza sarà impossibile farlo progredire negli studi. La scuola è un’enorme pentolone che ribolle, dall’infanzia all’adolescenza le emozioni viaggiano alla velocità della luce: imparare a governarle diventa decisivo. Per molto tempo gli insegnanti (e pure i genitori) non si sono preoccupati di questo aspetto: l’idea generale era che queste capacità si sviluppano naturalmente con il tempo, attraverso l’esperienza. Ma gli studi confermano che non è affatto così: molti non riescono mai a controllare i propri stati d’animo, attraversano in una sorta di altalena emotiva tutta la loro carriera scolastica sino a diventare giovani uomini e donne problematici. “Sono percezioni naturali mi ripete ancora qualcuno, i bimbi le apprendono guardandosi attorno in famiglia. È un’assurdità: come tutte le doti vanno allenate”, dice ancora Brackett, che poi aggiunge: “Non basta urlare calmati per ottenere l’effetto sperato, bisogna spiegargli come fare a riprendere il controllo: va riconosciuto il problema, affrontato, risolto”.
I benefici sono assicurati, giurano gli esperti. Non solo nell’immediata carriera da studenti ma anche nel futuro: secondo uno studio dell’università della Virginia l’educazione emotiva è la chiave per avere successo nella vita e nel lavoro, poi ci guadagnano le relazioni di coppia e persino la salute. “Gli effetti positivi vanno ben al di là di un bel voto in un test: so-no talmente tanti da dare quasi le vertigini”, esulta Maurice Elias della Rutgers University.
Nascono molti siti dove si trovano manuali di comportamento, nei blog padri e madri smarriti davanti ad un terreno sconosciuto trovano le risposte che cercano, su Google ci sono più di 8mila link collegati (ce n’era uno nel 1981). Edutopia, la fondazione di George Lucas, quello di Guerre Stellari, stanzia milioni di dollari ogni anno per promuovere questi programmi, altre organizzazioni no profit fanno pressione sul Congresso e sui singoli Stati perché la materia diventi obbligatoria per legge. L’Illinois, dal 2003, è il primo stato ad averla adottata, adesso si muovono anche altri: dalla California a New York. Tutti convinti che questa sia la strada per prevenire l’incubo dei professori americani: il bullismo, compreso la sua versione cyber: “Se riusciremo ad insegnare ai nostri ragazzi l’autocontrollo, tra vent’anni avremmo un mondo migliore”, assicura Jessica che insegna anche lei alla Corlears. La fiducia nella prevenzione conquista anche la politica: tanto che da Washington parte la direttiva di cambiare linea sulla “tolleranza zero” a scuola.
Sino ad ora gli studenti indisciplinati venivano puniti con severità, dall’espulsione sino al carcere nei casi di reati violenti: adesso si mettono in atto corsi di recupero, non perdere ragazzi per strada diventa prioritario e nelle ore passate con gli insegnanti di sostegno, va da sé, l’educazione emotiva è la materia regina.
Billy fa il preside in una scuola di Sacramento, racconta la sua esperienza al New York Times, che dedica al tema una copertina del suo magazine: “Andava tutto male, pessimi risultati, indisciplina, risse e guai simili. Allora ho cambiato molti professori, rifatto i programmi didattici ma ancora niente: le cose non miglioravano. Poi ho messo nella didattica il corso e dopo pochissimo la situazione è migliorata. Anche io sto meglio,me lo dice pure mia moglie”.
Gli esercizi e le tecniche di insegnamento variano: il tratto comune è la fisicità, il tentativo di far visualizzare ai bambini le loro emozioni in modo da imparare a riconoscerle dunque a domarle. Gli alunni devono ricordarsi che faccia avevano quando si sono arrabbiati con la mamma, oppure quando hanno fatto festa per un bel voto: ritrovata quell’espressione la ricreano e stanno immobili per un po’. Oppure devono colorare quadrati con diverse tonalità, ognuna legata ad uno stato d’animo particolare e poi incollarli al muro in modo da avere un grafico aggiornato del proprio umore. E anche viene chiesto di animare i libri, di recitare quello che hanno letto o i temi che hanno scritto. La respirazione è l’altro filo che li tiene assieme: passa da qui infatti molta della nostra capacità di gestire i diversi stati animi, soprattutto la paura. Poi i vari programmi lasciano molto libertà ai professori, che devono capire quale tipo di bambino hanno davanti: c’è chi dimentica una sensazione dopo pochi secondi e chi se la porta dietro per mesi. “Bisogna fare attenzione, si cammina in un campo delicato: addestrare bene i docenti diventa decisivo”, avvertono gli psicologi.
Ma non tutti applaudono la novità. La scrittrice Elizabeth Weil lancia l’allarme su New Republic: “Vogliono uniformare i nostri figli. Io difendo il loro diritto di essere esuberanti, originali, anticonformisti anche a costo di farsi male. Già le nostre scuole non brillano per fantasia: adesso andiamo incontro al rischio di un’ortodossia emotiva”. E una attenta studiosa delle scuole americane, Diane Ravitch le dà ragione: “Il guaio del nostro sistema educativo è che non abitua alla libertà di pensiero, altro che controllare le emozioni: andrebbero scatenate”.
L’ombra si allunga sul cortile della scuola di Chelsea. Fa freddo e i bambini rientrano in fretta, si spingono e urlano nella strettoia della porta, LaTasha li sgrida sorridendo: “Non penso che creiamo dei robot, offriamo uno strumento per aiutarli a stare meglio. Prendi l’inglese, insegniamo la grammatica poi ognuno di loro, grazie a Dio, in quello che scrive ci mette il cuore, la vita e la propria personalità”.

La Repubblica 20.01.14