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"Cocò", di Massimo Gramellini

La mattina di Capodanno del 1926, al comando di ottocento guardie a cavallo, il prefetto Cesare Mori cinge d’assedio Gangi, che in quel momento è la cittadella riconosciuta dei mafiosi. Mori, non per nulla detto “il prefetto di ferro”, procede al rastrellamento casa per casa e sequestra tutte le donne e i bambini, raggruppandoli al centro della piazza principale. Concede ai mafiosi un ultimatum di 12 ore. Non sapremo mai cosa avrebbe fatto davvero di quelle donne e di quei bambini perché allo scoccare dell’undicesima ora Gaetano Ferrarello, il “capo dei capi” dell’epoca, esce a braccia alzate dal suo nascondiglio, che manco a farlo apposta si trova nel sottotetto della stazione locale dei carabinieri.

Se il prefetto Mori era arrivato a usare i bambini di un paese intero come arma di ricatto è perché sapeva che per la mafia del 1926, certo non meno crudele di quella di oggi, esistevano limiti invalicabili, legati a concetti come l’onore, che impedivano di torcere anche solo un capello a un minorenne.

Questa mattina all’alba, nella campagna di Cassano allo Ionio in provincia di Cosenza, alcuni cacciatori hanno trovato nascosta dietro un casale in rovina una station wagon incendiata. Dentro c’erano i cadaveri carbonizzati di due adulti e un altro scheletro più piccolo. Molto più piccolo.

Si chiamava Nicola Campolongo, detto Cocò. Aveva tre anni e il destino di essere nato in una famiglia di spacciatori di droga. Il padre è in carcere, e così la madre. Per qualche tempo Cocò ha abitato dietro le sbarre con lei, ma poi si pensò che era una follia farlo vivere lì. Si pensò bene, intendiamoci, ma il pensiero successivo fu forse meno geniale: affidare Cocò alle cure del nonno Giuseppe Iannicelli, un sorvegliato speciale con precedenti di sequestro di persona, violenza sessuale e associazione per delinquere di stampo mafioso.

Spacciava droga anche lui e probabilmente avrà pestato i piedi a qualche clan più potente che ha decretato, insieme con la sua, la morte della compagna di 27 anni e quella ancora più inconcepibile di Cocò. Dai primi accertamenti delle forze dell’ordine le esecuzioni sarebbero avvenute altrove. Poi, qualcuno che si arroga la pretesa di considerarsi un essere umano ha preso il corpo del bambino, lo ha adagiato accanto agli altri nell’auto del nonno, lo ha cosparso di benzina e gli ha dato fuoco.

Il nome di Cocò va ad aggiungersi a quelli di Valentina, Raffaella, Angelica e Santino, e ad altri ancora, nella lista dei piccoli uccisi dalle mafie senza altra colpa che quella di essere parenti di qualcuno o anche solo testimoni di un delitto.

Ai tempi di Mori, mafiosi camorristi e ndranghetisti avrebbero considerato questo tipo di crimine una macchia indelebile alla loro onorabilità. Ora non è più così e questa certezza, insieme con un grande dolore, ci d à anche una piccola speranza. Una mafia che ammazza impunemente i bambini non potrà mai più essere circondata da quell’alone di rispettabilità e persino di fascino che ha fatto per secoli la sua fortuna tra la gente comune.

Chi ammazza bambini non è un eroe, un avventuriero e nemmeno un protettore credibile. Chi ammazza bambini è solo un assassino da assicurare alla giustizia. Ed è questo messaggio, per fortuna, che sta passando con forza nelle nuove generazioni.

Ci spiace solo che Cocò se ne sia andato all’alba di un mondo che ci auguriamo migliore. Buonanotte.

La Stampa 21.01.14