attualità

"La Ue alla prova del voto", di Adriano Prosperi

Le elezioni europee sono imminenti ma sembrano remotissime. Da noi si parla solo delle elezioni italiane e della introvabile formula magica per sostituire l’indecente sistema condannato dalla Cassazione. Ma così il cittadino è autorizzato a pensare che quelle europee non servono a niente. È vero o no? Ci sono due risposte alla domanda, quella della cronaca e quella della storia. La cronaca dice che si procede per forza d’inerzia sull’antico binario dell’uso delle poltrone di Bruxelles come semplice risorsa aggiuntiva o luogo di riposo per politici trombati: sui giornali si legge dell’ipotesi di spostare a Bruxelles il ministro Kyenge (ma perché? Per offrirla ad altri insulti? O per nascondere il fallimento delle buone intenzioni?); e si legge soprattutto che all’Europa mira il pluricondannato Berlusconi come quinta girevole per un rientro in Italia. Ma questa pratica è durata anche troppo a lungo. La scadenza quinquennale che dal 1979 ci porta davanti all’appuntamento non potrebbe essere piuttosto l’occasione per dire davvero per quale Europa si deve votare? Chi ricorda la morte di Enrico Berlinguer sul palco dei suoi appassionati comizi del 1984 aspetta ancora che qualcuno risollevi dalla polvere quella bandiera.
È vero che il sentimento diffuso nell’Italia della crisi è di delusione se non addirittura di rifiuto nei confronti dell’Europa. Nessuna traccia è rimasta dell’entusiasmo con cui fu accolto da noi l’atto dell’ingresso dell’Italia nella pattuglia di testa dell’unità europea. Quali e quanti errori e quali responsabilità abbiano contribuito a cancellare il senso esaltante di quella svolta è la domanda da farci se vogliamo capire perché il cammino successivo è stato piuttosto di allontanamento che di avvicinamento all’obiettivo sognato. E c’è urgente bisogno di una analisi dei fondamenti di questo stato d’animo. Chi ha idee e analisi e non corre dietro a umori e rumori di pancia leghisti dovrebbe cogliere l’occasione di queste elezioni per chiedere il voto su di un programma di cambiamento. Si tratta con ogni evidenza di correggere l’identificazione dell’Europa con l’arcigna idea che ne corre nell’opinione tedesca, anche per impedire alla Germania di portare al disastro europeo per la terza volta in un secolo, come ebbe a dire Joschka Fischer.
Non è certo per caso se l’Europa a gestione tedesca è avvertita come una matrigna, una burbera e avara sorvegliante. Si pensi che la notizia dell’inizio col primo gennaio 2014 della libera circolazione di bulgari e rumeni nei paesi dell’Unione è stata commentata così da un canale televisivo vicino alla Spd: «Chi truffa vola via subito!». È uno dei tanti indizi della diffusione in Germania di uno stato d’animo sospettoso e inclemente: si guarda agli italiani — e non solo a loro — come a una specie umana diversa, inaffidabile, spendacciona, incline alla truffa e alla corruzione, capace solo di spendere male i soldi erogati per sospetta connivenza dal banchiere italiano che governa la banca europea. È un indizio di come stia crescendo di nuovo in Germania quel complesso di responsabilità per un mondo intero da mettere in ordine che ha dato già le prove disastrose a tutti note. Però anche là qualcuno ha tentato di lanciare un progetto di ripresa del cammino verso l’Unione europea: lo hanno fatto gli autorevoli firmatari di un documento pubblicato sulla
Zeit del 17 ottobre scorso (Glienicker Gruppe). Vi si leggono precise proposte di riforma del sistema europeo: dalla creazione di uno standard comune per il mercato del lavoro comprensivo di una assicurazione comune contro la disoccupazione a quello del funzionamento del sistema bancario e delle condizioni del credito, dalla creazione di un “esecutivo economico comune”, agile e dotato di mezzi adeguati di intervento nei paesi in crisi, alla formazione di un esercito comune e di una politica estera unitaria. Lo strumento proposto è un nuovo contratto europeo che, partendo dal dato acclarato del fallimento in atto, fissi col consenso di tutti i nuovi patti e le nuove regole mirando alla finale unificazione delle diverse costituzioni
nazionali.
Anche in Italia si sente il bisogno di rimettersi in cammino di nuovo, di rifiutare questa Europa per un’altra e migliore unità europea. E per questo, al di là dei silenzi e delle miserie della cronaca, sarebbe utile rifarsi alla storia: anche perché il nostro continente non ha nessuna ragione naturale o evidenza geografica. La parola di origine greca che lo designa indica una realtà culturale e storica. E fu da queste premesse che nacque nell’800 l’idea dell’Europa dei popoli, una utopia rivoluzionaria che risorse un secolo dopo sulle macerie di un continente due volte distrutto dai demoni dell’altra Europa, quella degli Stati e dei nazionalismi.
Dunque per prepararci alle elezioni converrà rileggere il manifesto di Ventotene per capire come orientarci. Secondo Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi la divisione tra progressisti e reazionari è «tra coloro che concepiscono, come campo centrale della lotta quello antico, cioè la conquista e le forme del potere politico nazionale, e che faranno, sia pure involontariamente il gioco delle forze reazionarie, lasciando che la lava incandescente delle passioni popolari torni a solidificarsi nel vecchio stampo e che risorgano le vecchie assurdità, e quelli che vedranno come compito centrale la creazione di un solido stato internazionale, che indirizzeranno verso questo scopo le forze popolari e, anche conquistato il potere nazionale, lo adopereranno in primissima linea come strumento per realizzare l’unità internazionale». Dove si trova oggi questa linea di divisione nel panorama italiano? Chi può onestamente dire e dimostrare di essere collocato dalla parte dei progressisti?
Di fatto, al di là delle belle parole e degli slogan di rito, il vecchio stampo e le vecchie assurdità occupano tutto l’orizzonte della politica nazionale. Eppure la voce dell’Europa la si è avvertita spesso come l’unica capace di strappare il velo di arretratezza civile che ancora avvolge l’Italia. L’episodio più recente è la cancellazione dell’ultimo tenace simbolo di un modello patriarcale del rapporto genitorifigli, l’eredità del cognome paterno: un dettaglio che non ha più alcun significato, ma che pure ci si sforza di lasciar sopravvivere con le forme ambigue e ingannevoli che la legge in gestazione sta dando alla liberazione da quel feticcio. E non parliamo di tante altre questioni che riguardano i diritti civili, dalla questione della cittadinanza a quella delle unioni matrimoniali tra persone dello stesso sesso.

La Repubblica 21.01.14