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"Salviamo gli archivi. Usiamo le ex caserme per custodire la memoria", di Benedetta Tobagi

Grande emozione suscitò il recupero e successivo restauro delle lettere autografe di Aldo Moro dalla prigionia: avrebbero subito un deterioramento irreversibile se fossero rimaste nel ventre dell’archivio del tribunale di Roma ad aspettare il termine di quarant’anni previsto per il versamento all’archivio centrale di Stato. E meno di una settimana fa hanno rischiato di finire nel rogo delle procedure di scarto periodico alcuni delicati documenti riservati contenuti negli incartamenti del processo del 1967 contro Scalfari e Jannuzzi, quando fecero esplodere sull’Espresso lo scandalo Sifar e il caso del “piano Solo” del generale De Lorenzo, il primo di una lunga serie di sussulti golpisti: secondo il protocollo standard, infatti, solo la Corte d’Assise conserva i fascicoli interi. Ma l’eccezionale complessità delle pagine criminali della storia dell’Italia repubblicana esige che alle carte in cui lacrime e sangue di quella storia sono racchiuse sia riservata un’attenzione particolare: non si può continuare a confidare solo nella coscienziosità e buona volontà di singoli archivisti o cancellieri illuminati.
Si ripropone ancora una volta, insomma, l’annoso problema degli archivi italiani, parte organica di un patrimonio storico-artistico più che mai bisognoso di tutele, a dispetto della crisi. Come chiarisce Michele Di Sivo, che per l’Archivio di Roma cura il versamento delle carte dei processi per terrorismo ed eversione celebrati a partire dalla fine degli anni Sessanta, i problemi di spazio, inventariazione, conservazione (l’obiettivo a tendere è una completa digitalizzazione dei fascicoli, come s’è fatto già fatto con i processi di Milano e Catanzaro per la strage di piazza Fontana) si saldano alle gravi criticità della gestione ordinaria dell’immenso patrimonio archivistico della storia d’Italia. Si parla di oltre duemila chilometri di carte: due volte la lunghezza della Penisola. Le sedi degli archivi di Stato non hanno più spazio, perché la mole dei documenti, nel Novecento, è cresciuta di pari passo con l’espandersi della burocrazia statale; l’esigenza emersa, non solo a Roma, di un versamento anticipato delle carte dei tribunali per salvaguardarle dal deperimento non fa che rendere più urgente il problema. Gli antichi palazzi in cui dimorano spesso non sono più adeguati a garantire condizioni ottimali di conservazione. E comincia a porsi un problema serio di personale: l’età media degli archivisti ormai è elevata (la media è circa 58 anni), mancano le risorse per assumerne di giovani e trasmettere loro le conoscenze sul campo, oltre che per dotarsi di competenze adeguate ad affrontare le nuove sfide poste dall’archiviazione nell’era digitale.
La crisi morde e le risorse, è noto, scarseggiano. Che fare, dunque, per uscire da un perenne stato d’emergenza e scongiurare danni irrimediabili? Serve una politica culturale coraggiosa. Serve una strategia di tutela dei beni culturali — beni comuni, ricordiamolo — che, accanto al taglio dei costi, si preoccupi del costo dei tagli, ed elabori piani per garantire non solo la sopravvivenza, ma anche la valorizzazione degli archivi. Una proposta concreta è stata portata ieri al tavolo del ministro Bray da alcuni rappresentanti della “Rete degli archivi per non dimenticare”, che comprende sessanta soggetti, tra archivi di Stato e centri di documentazioni privati (capofila quello creato dall’ex senatore Flamigni), artefici di una prima mappatura dei fondi documentali rilevanti per la ricostruzione della storia dei terrorismi e della criminalità organizzata. Ad oggi, quasi 19 milioni di euro, pari ai 4/5 del budget risicato della Direzione archivi, servono a pagare gli affitti delle sedi storiche. Un costo che potrebbe essere abbattuto trasferendo gli archivi in sedi demaniali. Le ex caserme militari, per esempio: come denunciava ieri su queste pagine Salvatore Settis, in larga parte dismessi, abbandonati al degrado oppure oggetto di discussi e discutibili piani di alienazione. Gli ampi spazi di questi edifici, opportunamente attrezzati, potrebbero garantire alle carte in cui è iscritta la nostra storia collettiva una casa adeguata. Nel corso della discussione per la legge di stabilità, il deputato Pd Paolo Bolognesi (già presidente dell’associazione vittime della strage di Bologna), ha presentato un ordine del giorno, approvato dal governo, per assegnare parte delle risorse destinate agli investimenti in favore dei beni culturali proprio alla riqualificazione delle ex caserme dismesse, oggetto di accordo interistituzionale per il loro utilizzo come nuove sedi degli archivi di Stato, in primis quelli che già “scoppiano”. Uno spiraglio, insomma, è aperto. Certo, servono risorse per la ristrutturazione, il trasloco: soldi da spendere mentre ancora ci sono gli affitti da pagare. Tuttavia si tratterebbe di un investimento circoscritto e limitato nel tempo. In cambio, oltre ad assicurarsi una sede pienamente adeguata, senza più canone di locazione si liberano nel tempo ingenti risorse da destinare ad altri scopi. Tra cui, l’investimento sul personale, sulla tutela e valorizzazione delle carte. L’archivio di Roma potrebbe essere l’esperienza pilota. Oggi spende un milione d’affitto l’anno per la sede succursale di via Galla Placidia. Una sede alternativa è già stata individuata, l’ex caserma del Trullo. Bisogna quantificare i costi e avviare il processo. Ci vuole un impulso politico chiaro, per passare alla fase operativa.
Il ministro Bray auspica la creazione di una sorta di commissione scientifica per un’ampia mappatura delle fonti, non solo giudiziarie, rilevanti per lo studio della storia repubblicana. Pare altrettanto auspicabile che si crei anche un tavolo attorno a cui possano confrontarsi i ministeri e le amministrazioni interessate: accanto al Mibact, Difesa, Giustizia e Infrastrutture, come sottolinea Rossana Rummo, a capo della Direzione generale per gli archivi. In casi come questi, l’inerzia è esiziale. Si può fare molto, anche con poche risorse, con l’intelligenza e una forte volontà. Invece di disperdere denaro tamponando le emergenze, aprire una strada. Avviare un processo, magari lento e graduale, ma capace gettare le basi per uno sviluppo sostenibile e una vera valorizzazione degli archivi.

La Repubblica 23.01.14