attualità, memoria

"Ricordiamo, ma senza retorica", di Simonetta Fiori

«Cerchiamo di usarla bene, questa memoria. E se la giornata del 27 gennaio non ha raggiunto l’effetto sperato vuol dire che non abbiamo lavorato bene». Anna Foa è una studiosa di storia degli ebrei. Figlia di Vittorio Foa e Lisetta Giua, proviene da una famiglia ebrea per parte di padre, s’è convertita formalmente all’ebraismo in età adulta, e ancora ricorda da bambina la nonna che l’ammoniva: «Con quel profilo i nazisti ti avrebbero rinchiuso nel lager». Ora, scherza, anche lei fa parte degli “officianti” della liturgia memoriale, di cui conosce tutti i rischi.
Da più parti si denuncia la stanchezza della memoria: un martirologio che rischia di non comunicare più nulla.
«Anche nel mondo ebraico era cominciata una riflessione di questo genere, ma poi s’è arenata. Purtroppo il diffondersi del negazionismo accresce negli ebrei un atteggiamento di difesa. E così si difende tutto, anche la retorica. Chi parla di “shoah business”, ossia degli investimenti di danaro intorno al ricordo dell’Olocausto, richiama elementi di realtà. È fondato il rischio di diventare professionisti della memoria. Bisogna dirlo senza farci spaventare dall’antisemitismo. Anche se poi questo è un enorme problema reale».
La retorica non funziona granché: lo vediamo anche dal proliferare dei siti negazionisti.
«Sì, anche se escludo che l’antisemitismo sia una reazione all’enfasi celebrativa. Però è sbagliato somministrare ai ragazzi una doccia di memoria dall’alto, come fosse una medicina».
Secondo lei la giornata del 27 gennaio va mantenuta?
«Credo che abbia avuto un effetto positivo, ma sia diventata troppo “ufficiale”, con un effetto di sovraccarico. Bisognerebbe trovare una chiave per cambiarne le caratteristiche. Anche aprendosi agli altri genocidi del Novecento, cosa che non è sempre ben vista all’interno del mondo ebraico: si teme la banalizzazione della Shoah. Quanto al 27, mio padre Vittorio diceva che non bisognava ricordare un giorno solo».
Oggi si pone il problema di come ricordare. Un libro appena uscito, Dopo i testimoni, s’interroga sulla memoria dopo la scomparsa degli ultimi sopravvissuti.
«Mi sembra folle l’idea, circolata da qualche parte, che si possano allevare dei ripetitori di memoria individuale. C’è invece bisogno di storia, come dicono Bensoussan e molti altri in quel volume. E c’è bisogno di storie: ricostruire vite cancellate».
Lei ne ha raccontato diverse in Portico d’Ottavia 13: tutte storie vere. Ma cosa pensa dell’efficacia delle fiction?
«C’è sempre il rischio di buttare un’ombra sulla realtà: ma è finzione o realtà? Quando scrivevo il mio libro, sono stata tentata di riempire i buchi con la immaginazione, ma poi ho pensato che con la Shoah non si poteva fare».
Un altro problema riguarda Aushwitz, trasformato in museo: freddo, asettico, pronto al consumo.
«Sì, condivido questa impressione. Sentire la spiegazione didascalica della guida mi ha dato fastidio. I luoghi hanno una loro forza sconvolgente perché evocano ciò che è accaduto. Se ascoltare questa storia non ti cambia niente dentro, allora è inutile ascoltarla».

******

“Quello che la Shoah può ancora raccontare”, di SUSANNA NIRENSTEIN
Smettiamo di considerare Auschwitz un museo perché Mein Kampf
di Adolf Hitler, oltre a essere stato in questi giorni sdoganato dalla Baviera che sinora ne aveva vietato la pubblicazione, è già un bestseller tra gli ebook (in inglese ce ne sono sei versioni ed è al primo posto nella sezione “Political and Propaganda Psychology” di Amazon e al 12esimo in “Politics and Current Events” dell’iTunes Book Store oltre a essere tra i libri più letti nei paesi musulmani). Auschwitz non è un museo perché nel 2012 in Francia sono stati registrati 614 atti antisemiti, 1,6 al giorno, il 58 per cento in più dell’anno prima, tra cui aggressioni e uccisioni a mano armata spesso a sfondo israelofobico da parte di chi inneggia alla jihad. E perché in Ungheria e Grecia l’antisemitismo è rappresentato in parlamento. E in Italia ci sono onorevoli che parlano di complotto dei banchieri ebrei.
Auschwitz non è un museo perché c’è ancora molto da sapere e da chiarire dello sterminio nazista: per restare ai dati, l’United States Holocaust Memorial Museum di Washington, raccogliendo i risultati delle ricerche per l’enciclopedia in corso di pubblicazione, è arrivata solo quest’anno a focalizzare numeri scioccanti, di gran lunga superiori a quelli noti. Ha infatti catalogato 42.500 tra ghetti e lager realizzati dai nazisti in tutta Europa, alcuni campi dedicati allo sterminio, ma anche: 30.000 campi di lavori forzati, 1.150 ghetti, 1000 destinati ai prigionieri di guerra, 980 campi di concentramento, 1.000 di prigionia di guerra, a cui ne vanno aggiunti altre migliaia di più piccoli e meno noti, come i 500 bordelli con relative schiave del sesso, i lager (circa 90) destinati all’eutanasia dei vecchi e dei malati, e quelli per gli aborti forzosi, e ancora quelli di “donazione di sangue” (tolto ai bambini slavi – lasciati morire – per i soldati tedeschi feriti), e altri di “germanizzazione”, posti dove veniva raccolta un’infanzia soprattutto polacca e russa (dall’aspetto insomma razzialmente puro) presi dagli orfanotrofi o rapita alle famiglie: gli “elementi validi” erano dati in adozione a tedeschi, quelli scartati uccisi.
In questo sistema concentrazionario entrarono dai 15 ai 20 milioni di persone, e ne morirono tra i 7 e gli 8 (tra i 3,5 e i 4 gli ebrei), a cui vanno aggiunte le fucilazioni e le fosse comuni ad Est, che portano a 6 i milioni di ebrei uccisi. «Le cifre e le diverse tipologie dei campi sono state sorprendenti anche per noi» ci ha detto Geoffrey Mergaree direttore dell’enciclopedia, «a questo punto al fatto che i tedeschi non sapessero quel che stava avvenendo non può più credere nessuno”. Nella sola Berlino c’erano 3.000 centri dove erano detenuti gli ebrei, ad Amburgo 1.300. Questi numeri sono così immensi che finiscono quasi per annullarsi, per ubriacarci. Ma riguardano tutti singoli individui, con un nome e un cognome, una vita prima dell’annientamento, una realtà che può sfuggire se invece smettiamo di ragionare su come si arrivò alla rottura di civiltà europea, se musealizziamo il Giorno della Memoria.
Due libri diversissimi tra loro in uscita per il 27 di gennaio colgono bene il tema oltre il nuovo The Devil That Never Dies
di Daniel Goldhagen incentrato sulle figure dei nuovi odiatori di ebrei, come Ysuf al-Qaradawi che nei suoi popolari sermoni su Al Jazeera predica la punizione degli ebrei per la loro corruzione, «dopo Hitler sarà per mano dei credenti (leggi musulmani ndr) che verrà portata a termine»: la cosa non scandalizza nessuno. Ma torniamo ai nostri due libri. Prima, brevemente, Scorze di Georges Didi-Huberman (Nottetempo, trad. Anna Trocchi) filosofo e storico dell’arte francese, un racconto fotografico di un luogo dove sembra non ci sia più niente da vedere, Auschwitz Birkenau appunto, “museo della memoria” con i suoi allestimenti, ricostruzioni (come quella delle immagini prese di nascosto da un membro del Sonder kommando su un gruppo di prigionieri che corrono nudi verso le camere a gas sotto la minaccia dei soldati: manca nella messa in scena delle foto quella fuori fuoco, l’unica che poteva spiegare, evocare la circostanza travolgente in cui furono tutte scattate, in segreto, e salta anche il punto di vista dell’uomo – la porta della stessa camera a gas – che rischiò per documentare l’obbrobrio). Uno sguardo attento come quello di Didi-Huberman sconvolge l’asetticità del museo e recupera quel che i nazisti distrussero: coglie ad esempio i fiori nati dove riposano le ceneri del crematorio, le tracce – schegge e frammenti di ossa che la pioggia ha fatto risalire in superficie – dei massacri di massa nelle aree continuamente ricoperte di nuova terra. Auschwitz non è un museo, appunto. Gli esseri distrutti sono ancora lì – 12.000 assassinii al giorno durante l’estate ’44 ad esempio, aggiungiamo noi – nel più grande cimitero del mondo.
Attacca ancor più direttamente la sterilità di un retorico “dovere della memoria” e indica invece le strade da seguire (
Come ricordare? recita il sottotitolo), lo storico francese Georges Bensoussan (grande indagatore della storia contemporanea ebraica e della Shoah, con alle spalle numerosi titoli e riconoscimenti). Il suo ampliamento de L’eredità di Auschwitz (Einaudi, trad. Camilla Testi, postfazione Mauro Bertani) porta non uno ma mille spunti su come vada corretta l’impostazione attuale che comunque continua a considerare la Shoah come lezione oscura sacralizzata, incarnazione di un male assoluto e folle, impossibile da indagare a fondo e da attualizzare. Difficile tirare fuori da questo testo fitto fitto di suggestioni e indicazioni, le cose essenziali. Eccone alcune. Primo, la Shoah non è affatto la ripetizione di tragedie ebraiche passate: è una cesura della civiltà europea, ma non è assolutamente un incidente della Storia, è un crimine bio-politico sviluppato da dentro l’idea dell’igiene del mondo a sua volta originata dal darwinismo sociale sviluppato nel XIX secolo, un fenomeno da tenere a mente, dice Bensoussan, anche mentre guardiamo l’oggi e la nostra deificazione della scienza. Ma per quanto il millenario antigiudaismo cristiano e l’antisemitismo nazista siano diversi, mette in guardia Bensoussan, essi non sono opposti: l’antigiudaismo cristiano ha preparato il terreno, ha introdotto l’identità demoniaca degli ebrei, e non solo quello (anche la limpieza del sangue richiesta nella Spagna del XV secolo).
Oltre a questo, c’è molto altro. Ovvio. Se il nemico per il nazismo è un oggetto biologico da eliminare, il progetto genocida è anche frutto di una visione millenarista e appunto demonizzante (come non pensare anche qui all’oggi, e alla definizione degli ebrei come figli di scimmie, all’assurda denuncia che i soldati israeliani distribuiscano caramelle avvelenate ai bambini palestinesi), tanto che con la ragione non si arriva a stabilire una casualità lineare: sono un milione i tasselli da mettere insieme. E Bensoussan ce li suggerisce chiedendo di fare Storia, non di ricordare. Lo sforzo di comprensione ci spinge a fare paragoni, sacrosanti ma non devono livellare, ogni genocidio ha la sua specificità. Quello degli ebrei, delle camere a gas, nasce dal ventre dell’Europa e dalla modernità: il terreno di ricerca, di archeologia storica è ancora in gran parte incolto, gli interrogativi che pone sono ancora molti, da rivolgere a se stessi e nelle scuole. Leggete Bensoussan e ve ne renderete conto.

La Repubblica 24.01.14