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"La Rai contro il Governo nella guerra del canone", di Giovanni Valentini

La pressione fiscale che sopportiamo è giusta come ammontare complessivo, ma è mal distribuita. (da “In Italia paghiamo troppe tasse. Falso!” di Innocenzo Cipolletta – Laterza, 2014 – pag. 35). La paradossale situazione in cui s’è messa la Rai, ricorrendo al Tar del Lazio contro lo stop all’aumento del canone deciso dal Ministero dello Sviluppo economico, e cioè contro il suo stesso azionista, rappresenta tutte le ambiguità e le contraddizioni della governance che regola il servizio pubblico nel nostro Paese. È vero che c’è un precedente che risale al 2005. Ma allora quel ricorso fu lasciato decadere un anno dopo e ciò conferma comunque la condizione di precarietà in cui versa da sempre la gestione dell’azienda radiotelevisiva.
In un’intervista al nostro giornale, il ministro Flavio Zanonato ha già spiegato il suo intervento con la necessità di dare un apprezzabile “segnale di tregua” alle famiglie, in un momento così difficile di crisi. Per effetto dell’adeguamento automatico al costo della vita, previsto dalla sciagurata legge Gasparri, quest’anno il canone sarebbe dovuto aumentare di 1,5 euro, per arrivare a un totale di 150. Il mancato incremento, dunque, sottrarrà 30-35 milioni alle casse di viale Mazzini.
Ma è stato lo stesso Zanonato a mettere opportunamente il dito sulla piaga, ricordando che l’evasione del canone Rai ammonta a circa 450 milioni l’anno (pari al 25% degli incassi complessivi) e rilanciando la necessità di combattere il fenomeno. Basterebbe già questo per rimettere in ordine i conti dell’azienda pubblica. E francamente non si vede come lo Stato possa fare la lotta alla nostra colossale evasione fiscale, quantificata in più di 50 miliardi dalla Guardia di Finanza per il 2013 e calcolata addirittura in 120 dalle stime degli esperti, se non riesce a contrastare quella ben più modesta e di più facile accertamento che viene praticata attraverso gli apparecchi radio e tv. È superfluo aggiungere che anche in questo caso chi paga regolarmente il canone, lo paga “pro quota” pure per i più “furbi”.
Eppure, i rimedi non mancano. Dalla proposta di collegare l’abbonamento radio-tv alla bolletta elettrica fino alla soluzione francese che lo applica alla taxe d’habitation
(sì, anche lì vige la tassa sulla casa). E già in passato su questo giornale avevamo lanciato l’idea di modulare l’imposta del canone in rapporto alle fasce di reddito, per renderlo socialmente più equo e accettabile.
Ma, in vista del rinnovo della concessione nel 2016, la vera questione riguarda l’assetto e – appunto – la governance della
Rai, su cui l’associazione “Move On Italia” ha promosso un confronto pubblico intorno a un “tavolo” della società civile. Per affrancare definitivamente il servizio pubblico dalla sua cronica sudditanza alla politica, è necessario innanzitutto trasferire la proprietà dell’azienda dal ministero dell’Economia a una Fondazione, rappresentativa delle varie componenti sociali. Questa, a sua volta, dovrebbe nominare un consiglio di amministrazione ristretto a cinque membri, con un amministratore delegato dotato di pieni poteri, senza dipendere né dal Parlamento né tantomeno dal governo.
Poi, in linea con la mission del servizio pubblico, c’è da ridefinire quello che si chiama il core business dell’azienda. Chi ha stabilito che la Rai debba avere 14 canali tv e 10 canali radio, come vanta in questi giorni lo spot promozionale sul canone d’abbonamento in scadenza il 31 gennaio? Alla televisione pubblica potrebbero anche bastare due reti generaliste e quatto o cinque reti tematiche, per svolgere adeguatamente i suoi compiti. E, magari, sarebbe utile una più organica convergenza con il web, come perno dell’alfabetizzazione digitale del Paese.
In questa ottica, e in funzione di un target editoriale diversificato, a Rai Uno spetta evidentemente un ruolo più istituzionale. E si può riconoscere che, sotto la guida di Giancarlo Leone, la rete sta proponendo un palinsesto di maggiore impegno e qualità. Deve preoccupare, invece, il calo di Rai Tre che — secondo i dati dello Studio Siliato di Milano — perde ascolti sia nel giorno medio che in prima serata, sia nel confronto trimestrale (quarto trimestre 2011-2013) che gennaio su gennaio (1-20 gennaio 2011-2012-2013-2014).
Non sarà, comunque, l’euro e mezzo in meno negato ora da Zanonato a mettere in crisi il bilancio di viale Mazzini. In nome dei sacrifici che tutti siamo chiamati a sopportare, basterà ridurre magari qualche compenso stratosferico a certi conduttori, qualche contratto a certi produttori esterni o qualche commissione a certi agenti, per rispettare la linea del rigore finanziario già intrapresa lodevolmente dalla direzione Gubitosi.

La Repubblica 25.01.14