attualità, politica italiana

"La strategia del caos", di Claudio Tito

Tanto peggio, tanto meglio. È ormai evidente che il vero obiettivo del Movimento 5Stelle non è altro che questo. Far sprofondare il sistema istituzionale e il Paese stesso nella confusione assoluta. Il proliferare del “grillismo” è direttamente proporzionale all’incapacità della politica di fornire risposte ai cittadini- elettori. Grillo e il cofondatore pentastellato, Casaleggio, hanno bisogno del caos, della paralisi per dimostrare la loro ragione di esistere.
Ma il paradosso, adesso, è proprio questo. La loro essenza si nutre esclusivamente della inattività. Hanno anzi bisogno di provocarla. Anche a costo di essere la causa stessa — e non l’esito — dell’inerzia. È come un organismo che aumenta la sua forza in modo parassitario con gli insuccessi altrui. L’escalation di questi giorni, del resto, non trova altre spiegazioni. La violenza dei toni, l’aggressività dimostrata ieri e mercoledì alla Camera, l’impeachment del capo dello Stato, tutto trova origine esclusivamente in questa esigenza primaria. Il nucleo dell’azione studiata dalla coppia Grillo-Casaleggio è orientato a provocare una sorta di shutdown
della politica. Una specie di arresto cardiaco del sistema in cui è impossibile assumere decisioni o formulare risposte. E nel quale — come capita negli scritti del “guru” grillino — evocare scenari apocalittici di ogni tipo. Una forma insomma di moderno populismo mirato ad assecondare i malumori dei cittadini e nello stesso ad esaltarli. Descrivere l’Italia perennemente sull’orlo del fallimento, dimostrare l’irrisolutezza del Parlamento e di tutte le istituzioni democratiche diventa lo strumento migliore per fare campagna elettorale.
Quel che è accaduto negli ultimi due giorni a Montecitorio non è grave solo per la intrinseca rissosità ma perché ha evidenziato proprio il tentativo di delegittimare in blocco l’intero impianto istituzionale. Strozzare con quei metodi i lavori parlamentari risponde ad una logica ben poco democratica. Troppo spesso gli esponenti del Movimento 5Stelle mostrano una cultura istituzionale approssimativa. L’assenza di regole di convivenza all’interno di quello che loro non definiscono un partito, si riflette costantemente nell’esposizione pubblica. I processi decisionali sono oscuri e privi di qualsiasi garanzia di imparzialità. Il ricorso alla rete diventa la giustificazione sistematica per scelte la cui base di consenso è imperscrutabile. Alla fine solo in due comandano: Grillo e Casaleggio. Con un aspetto che sta via via crescendo. Nelle parole dei grillini si coglie sempre più una forma di integralismo che impedisce ogni possibilità di dialogo e confronto. È come se costantemente dicessero: “O con me o contro di me”. È nel giusto ed è legittimo solo chi è d’accordo con loro. L’esito è parossistico nel “congelamento parlamentare” di quel 25% di voti che nelle aule di Camera e Senato sono stati sostanzialmente sterilizzati nella protesta.
Il punto è sempre lo stesso: i vertici pentastellati sanno bene che il prossimo sarà per il loro Movimento l’anno fatidico. Una tornata amministrativa in primavera, poi le elezioni europee e infine — molto probabilmente — il voto nazionale nei primi mesi del 2015. Devono fare campagna elettorale subito tentando di dimostrare agli italiani che la politica — tutta la politica — è collassata e che quindi serve un nuovo ordine. Un buon risultato nelle urne del 25 maggio può diventare il grimaldello per far saltare ad esempio il percorso riformatore appena imboccato.
Anzi, proprio il pacchetto di modifiche alla legge elettorale alla Costituzione che è in via di definizione in questi giorni si configura come il bersaglio da colpire il più rapidamente possibile. Se il sistema infatti mostra la possibilità di autoriformarsi, rischia allora di incrinarsi quel castello di populismo e demagogia apocalittica edificato dall’ex comico. Del resto esiste un’onda analoga che attraversa quasi tutti i paesi occidentali. Basti pensare al Tea party americano, al Fronte nazionale francese o allo Uk Independence Party inglese. Tutti sintomo di una contestazione cieca. Nessuna di queste formazioni, però, ha raggiunto i livelli di consenso protestario come in Italia. Ma tutti, in modo particolare il Tea party, hanno mostrato la capacità di influenzare le decisioni pur non essendo maggioranza e nonostante il ricorso ad argomentazioni massimaliste e concretamente inapplicabili.
In questo quadro rientra anche la richiesta di “impeachment” nei confronti del presidente della Repubblica. La fragilità e la contraddittorietà delle accuse mosse contro Napolitano rispondono solo ad una esigenza: la propaganda. Resta il tentativo, appunto, di delegittimare le Istituzioni. Provare a mettere in un unico calderone le inefficienze — da eliminare — e le garanzie democratiche, da tutelare. Tutti sanno che la procedura per mettere in stato d’accusa il capo dello Stato non avrà alcun esito. In primo luogo perché l’invocato tradimento della Costituzione non si è mai configurato. Eppure i grillini hanno bisogno di presentarsi alle prossime elezioni con il massimo di carica distruttiva. Sanno che hanno poco tempo per richiamare nell’immaginario collettivo la possibilità dello shut down della politica. Per loro, perdere il prossimo treno, equivale probabilmente a perdere tutto.

La Repubblica 31.01.14

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“Sessant’anni di zuffe parlamentari e ostruzionismo”, di FILIPPO CECCARELLI

Sono diversi, e in che cosa, i tumulti grillini da quelli della pur ricca tradizione parlamentare italiana?
La risposta è necessariamente ambigua: sì e no. Sono più estesi e diffusi, ad esempio; un tempo tutto avveniva più o meno in aula, con appendici nel Transatlantico, al giorno d’oggi gli spazi di contesa – come li definiscono i sociologi – si moltiplicano nelle commissioni e specialmente dinanzi alle telecamere. L’obiettivo di fondo, il nirvana della guerriglia, è plausibilmente la simultaneità, se possibile in diretta streaming e connessione con la piazza antistante.
Di qui la seconda differenza rispetto al passato. Più che intensa, la baraonda a cinque stelle è e deve essere visibile. O meglio, in un tempo dedicato all’immagine ha tutta l’aria di essere stata allestita secondo una sensibilità eminentemente televisiva. Nella Prima Repubblica nessuno si sarebbe mai sognato di inalberare cartelli, striscioni, bandiere, tanto meno di indossare bavagli e suonare il fischietto.
Va da sé che la pulsione coreografica, per così dire, non riguarda solo i deputati del M5S. In pieno bailamme, per dire, gli onorevoli di Sel gli hanno risposto dai loro banchi intonando «Bella ciao». Non è nemmeno la prima volta che a sinistra reagiscono in questo modo, ma sarebbe comunque molto complicato spiegare a un osservatore straniero non si dice qui l’efficacia, ma anche soltanto il senso di quella canzone, in quel momento, e rivolta a quegli altri deputati e deputatesse.
A meno di non ritenere, sulla base di altri analoghi episodi, che l’esibizione «spettacolare», molto tra virgolette, e gli aspetti scenici e sonori abbiano ormai assoluta preminenza sullo scontro fisico. A questo proposito, checché se ne dica, i tumulti di questi giorni paiono o forse sono molto meno violenti di quelli vissuti da tre o quattro generazioni di giornalisti parlamentari quando ancora in tribuna non c’erano le telecamere, tantomeno la moviola a disposizione del collegio dei Questori.
Si può anche azzardare che i guerrieri d’aula, ma un po’ tutti i parlamentari, avessero ai tempi assai meno
paura di farsi male. Forse l’attuale prudenza è un effetto positivo della fine delle ideologie. Forse è l’incerta leggerezza delle culture politiche a spingere in direzione della caciara piuttosto che liberare la più fredda e brutale aggressività. Ma nelle «risse che furo» esistevano veri e propri specialisti. Il fratello di Pajetta, Giuliano, era detto «il Giaguaro» per la contundente agilità con cui balzava da uno scranno all’altro, ma anche il gruppo dc disponeva di robusti e rinomati Coldiretti per nulla affatto disposti a lasciarsi intimidire.
Anche i radicali, che negli anni 70 e 80 erano pochissimi e anche non violenti, mostravano un certo animo e un’indubbia, a volte persino eroica attitudine a far saltare i nervi, specie ai comunisti, ma anche ai missini. Oggi è un brulichio di anonimi personaggetti. Prima erano calci e pugni, ora si tratta di pacche e manate più o meno involontarie, spintarelle, sputi, al massimo morsi.
Vero è che per risalire alle pietre miliari della violenza parlamentare tocca tornare molto indietro. L’ostruzionismo delle sinistre sul Patto Atlantico (1949) e quello al Senato sulla legge truffa. In quest’ultimo caso, la domenica delle Palme del 1953, nel corso di una seduta di cui non fu mai approvato il verbale, la scazzottata durò la bellezza di 35 minuti. Il presidente dell’assemblea, il povero Meuccio Ruini, peraltro subentrato dopo le dimissioni dello spaventatissimo Paratore, fu centrato da un pesante calamaio in testa e prima di cedere ebbe il tempo di esclamare: «Viva l’Italia!». Ma la furia fu tale che vennero brandite le sedie degli stenografi, sradicate e poi lanciate le tavolette dei banchi, così come le aste dei microfoni usate a mo’ di lance.
Ora, non è per addentrarsi su terreni tecnicamente impervi, ma l’impressione è che l’altro giorno, magari per l’effetto-sorpresa, non abbia funzionato troppo bene o che occorresse rafforzare il muro dei giganteschi commessi, di solito impeccabili. Forse lo sfondamento è avvenuto con eccessiva facilità. Forse i questori di un tempo avevano una maggiore tenuta psicologica.
E dinanzi a casi del genere, per quel poco che importa, ci si sente inesorabilmente vecchi, ma il punto vero è che forse il Parlamento è davvero molto cambiato, nel senso che ha perso peso, serietà, gravità, indipendenza, in una parola cultura istituzionale. E non c’entrerà nulla, ché anzi su questi problemi è bene che si torni a legiferare in maniera intelligente, ma neanche a farlo apposta proprio nel giorno della zuffa, passeggiando nel cortile che un tempo ospitava l’aula Comotto, proprio là dove nel 2006 l’onorevole no global Caruso aveva piantato cannabis, un deputato di derivazione leoncavallina si è rollato e fumato una canna.
Tutto è successo così in fretta, anche nei tafferugli. Dall’epopea western alla commedia, fino ai cartoni animati. Oppure, se si preferisce, il tifo dello stadio si è insediato nelle istituzioni rappresentative. In ogni caso la «super-cazzola» evocata dal democratico Di Lello, le monete di cioccolata, i pompini, il perdono del commesso morsicato, l’incongruo «boia chi molla» accompagnano e alimentano il parapiglia. Dalla politica all’isteria il passo evidentemente era breve, ma solo nel caos ci si rende conto di averlo purtroppo compiuto.

La Repubblica 31.01.14