attualità, politica italiana

"Impeachment, difficile prenderlo sul serio", di Marco Olivetti

Il documento con il quale il Movimento Cinque Stelle ha motivato la richiesta di messa in stato d’accusa del presidente Napolitano imputa al capo dello stato sei comportamenti, che configurerebbero un attentato alla Costituzione.
Il primo consisterebbe nell’adozione di una serie di atti che, spostando il potere normativo dal parlamento al governo, avrebbero mutato la forma di governo da parlamentare in presidenziale. Se ci si chiede, però, di quali atti si tratti, si vede bene che tutti sono riconducibili alla responsabilità del governo: dall’adozione dei decreti legge, alla reiterazione di uno di essi, alle questioni di fiducia e ai maxiemendamenti.
Al presidente, i parlamentari pentastellati imputano evidentemente una mancata vigilanza su questi atti governativi. Ma essi dimenticano che proprio un ruolo “tutorio” più accentuato del capo dello stato a genererebbe l’alterazione che essi denunciano. Se poi, in casi specifici, vi sono state scelte discutibili del presidente, si tratterà, semmai, di singole violazioni della Costituzione, per le quali, secondo l’articolo 90 della Carta, egli non è responsabile.
La seconda accusa consiste nell’aver autorizzato la presentazione del disegno di legge governativo che prevedeva una procedura di revisione costituzionale in deroga all’articolo 138. Ma a parte il fatto che tale deroga passava era disposta applicando l’articolo 138, la tesi dell’illegittimità di una deroga all’articolo 138 è assai opinabile, se non del tutto errata e l’inventore di essa è del resto un altro autorevole presidente, Oscar Luigi Scalfaro (vedi le leggi costituzionali n. 1/1993 e 1/1997). Inoltre il potere presidenziale di autorizzazione alla presentazione dei disegni di legge governativi, inclusi quelli di legge costituzionale, ha natura per lo più formale. Anche qui, ammesso che vi sia un responsabile, esso è solo il governo, non il capo dello stato (articoli 89 e 94 della Costituzione).
La terza accusa consiste nel mancato esercizio del potere presidenziale di rinvio di leggi poi dichiarate incostituzionali: non solo si tratta di un’accusa che potrebbe essere rivolta a tutti i predecessori di Napolitano, ma qui, paradossalmente, i Cinquestelle hanno in testa una concezione del veto presidenziale simile più a quella diffusa nei regimi presidenziali che a quella tipica dei governi parlamentari (dove tale potere, ove esista, è esercitato assai di rado).
Addirittura risibile è la tesi per cui il presidente avrebbe violato la Costituzione accettando la rielezione: che il presidente fosse rieleggibile, in punto di diritto, non era dubitabile seriamente. Quasi tutti i predecessori di Napolitano (da Einaudi a Gronchi, da Pertini a Scalfaro e Ciampi) hanno accarezzato l’idea della rielezione, che non si è concretizzata solo per circostanze politiche concrete. Che poi la rielezione del presidente sia o meno opportuna è altro discorso, che non ha nulla a che fare con la violazione di norme costituzionali.
Lo stesso dicasi per l’esercizio del potere di grazia: qui semmai si può contestare la presidenzializzazione di tale potere operata dalla sentenza 200/2006 della Corte costituzionale, ma non certo la spettanza al presidente di tale potere. Ovviamente le scelte concrete del capo dello stato sono opinabili, ma si tratta di censure di opportunità, non di legittimità.
Infine, sulla questione del comportamento del presidente Napolitano nel processo stato-mafia non vale neppure la pena di soffermarsi, tanti sono gli svarioni, fra cui l’accusa di aver promosso un conflitto di attribuzione nel quale… la Corte costituzionale ha poi dato ragione al presidente.
è noto che i contorni esatti della fattispecie dell’«attentato alla Costituzione» sono assai incerti ed ambigui. Ma se si cercasse un caso da manuale per dimostrare cosa l’attentato alla Costituzione non sia, si potrebbe prendere ad esempio proprio il documento dei parlamentari a Cinquestelle.
Tale documento, volendolo prendere sul serio solo per un attimo, tradisce una doppia confusione. La prima è quella fra responsabilità politica classica – quella del governo verso il parlamento – e la responsabilità penale del presidente di cui all’articolo 90 della Costituzione.
La seconda ha alla base una visione pangiustizialista che da un lato sacralizza il ruolo della magistratura (rectius: delle procure), come ben si vede nel ragionamento sul processo per la trattativa stato-mafia e dall’altro vede nel presidente un super-potere di garanzia, dotato della bacchetta magica per riparare le ingiustizie. Proprio queste distorsioni sono l’aspetto più interessante del documento: il segno di un nuovo tipo di incultura costituzionale – quasi un’immagine rovesciata di quella berlusconiana – con cui oggi dobbiamo misurarci.

da www.europaquotidiano.it