attualità, politica italiana

"La scomparsa dei fatti. Dalla videocrazia di Berlusconi alla sondocrazia di Grillo", di Marco Pigliacampo

A rivedere ciò che è successo nei giorni scorsi con un minimo di distacco e un po’ di emozioni in meno, ci si accorge quanto sia rivelatore di un rapporto maligno tra politica-media-pubblico che nel nostro Paese ha raggiunto livelli critici. La gazzarra avvenuta in Parlamento, l’occupazione dei banchi del Governo da parte dei grilini, gli schiaffi e gli insulti tra deputati, le vergognose offese che hanno coinvolto la Presidente della Camera e il Capo dello Stato, tutto ciò ha impedito al grande pubblico di avere informazioni chiare sul motivo (pretesto?) per la polemica, cioè sulla conversione in legge del decreto in materia di Imu e Banca d’Italia.

Si tratta del decreto che ha permesso agli italiani di non pagare l’Imu e che ha coperto le minori tasse sul patrimonio immobiliare con, tra l’altro, maggiori tasse pagate dalle banche azioniste di Banca d’Italia. Le polemiche hanno impedito di capire le scelte del Governo, tantomeno i tecnicismi del provvedimento, che bisognerebbe spiegare insieme alla disciplina europea di vigilanza prudenziale delle banche. Temi complessi, che non possono essere ridotti ai giudizi sommari tipo “Like/Unlike”. A parte la stampa economica e alcuni tentativi, come quello di Bini, i giornali e ancora meno la televisione non sono riusciti a spiegare alcunché, nemmeno a dare la notizia (le norme del decreto), sommersi dai beceri episodi parlamentari e dalla “necessità” di riportare le “libere” interpretazioni dei politici di turno.

Tutto ciò ha confermato un grave problema del nostro Paese: il giornalismo ha grandi difficoltà, oggi più di ieri, a trovare il modo di raccontare i fatti concreti della politica, che sono innanzitutto le leggi, che bisogna saper leggere e collocare nelle prassi dei settori su cui impattano. Non è solo un problema di competenze tecniche, né tantomeno deontologico, ma riguarda il senso profondo del rapporto con la politica e con l’opinione pubblica. Oggi dare “solo” le notizie, nella cronaca politica, significa porsi fuori da questo rapporto.

La questione centrale è il modo con cui oggi, dopo il ventennio “videocratico” di Berlusconi, fanno politica i partiti italiani. I fatti (ciò che hanno legiferato o contrastato) non sono mai oggetto stabile della loro comunicazione politica (decido questo perché; voglio che non sia deciso questo perché), bensì sono oggetti instabili, opinabili, sempre pronti ad essere manipolati e utilizzati strumentalmente. Questa abitudine dei partiti relega il giornalismo politico ad un ruolo ancillare, anziché al ruolo fondamentale che dovrebbe avere di garante dei fatti. Le finalità di questa prassi maligna sono quelle di consolidare il rapporto con il “proprio pubblico” di elettori (rafforzandone le convinzioni e i pregiudizi) e di cercare ogni volta di raggiungere un pubblico ulteriore (instaurando un nuovo rapporto di identificazione).

Buona parte della politica italiana non parla alla ragione, ma all’emotività: non richiede un processo di comprensione, ma solo di identificazione. È per questo motivo che la consumazione dei fatti è immediata, come uno spettacolo di intrattenimento, e l’approfondimento è considerato inutile o almeno accessorio. Anzi, più la notizia è complessa, meglio si presta alla manipolazione delle opinioni politiche. Siamo passati dalla “videocrazia” berlusconiana, in cui il broadcasting media per eccellenza, la Tv, aveva il ruolo di rappresentare un eroe popolare estraneo alla politica di mestiere, alla “sondocrazia” grillina, in cui le cose da fare non coincidono con quelle migliori per il Paese ma con quelle desiderate dalla maggioranza dei cittadini. Ecco quindi la corsa dei politici a manipolare ogni fatto per mostrare coincidenza tra la propria opinione e quella più diffusa nel Paese.

Una prassi così deleteria è agevolata dall’idea oggi diffusa di democrazia come espressione della maggioranza e delle sue scelte, quando il principio cardine della democrazia dovrebbe essere la tutela dei diritti delle minoranze. Ma il principale punto di rottura resta il rapporto con i fatti, con la conoscenza, con il sapere. Lo ha scritto efficacemente Freccero nel suo ultimo libro: “Ogni forma di sapere è un insieme di regole che disciplinano e mettono in forma il potere. Ma un sapere vuoto produce un potere insensato. Un potere che trova solo in sé stesso la propria giustificazione ci riporta a una concezione rozza e primitiva del potere”.

Se il potere divorzia dalla verità per basarsi solo sull’opinione, adesca le persone con l’inganno e impedisce loro di crescere e assumersi le proprie responsabilità.

da http://www.huffingtonpost.it