cultura, economia

"Italia. Quanto vale la bellezza", di Francesco Erbani e Luisa Grion

La ricchezza prodotta dalla filiera culturale, con gli incassi di monumenti e musei e le entrate dell’indotto, supera i 214 miliardi. Più che una realtà, un potenziale perché manca una politica di sviluppo. Ma che sarebbe successo se Standard & Poor’s avesse tenuto conto del patrimonio materiale e non?

Siamo poveri, ma “belli”. Talmente belli e ricchi di cultura che nel valutare la solidità finanziaria dell’Italia varrebbe la pena di tenerne conto: non di sola industria, infatti, vive un Paese, ma anche della ricchezza che può produrre la sua arte, la sua storia, il paesaggio. Fonti di reddito che le agenzie di rating si guardano bene dal considerare, e sulle quali invece la Corte dei conti non intende più tacere. Tanto che ha aperto un’istruttoria nei confronti di Standard & Poor’s e dell’«incauto» declassamento che l’agenzia ci ha propinato nel 2011. Un crollo che ci ha fatto versare lacrime e sangue in termini di spread, pressione fiscale, fiato sul collo da parte di mezza Europa. Cosa sarebbe successo invece se l’agenzia avesse tenuto conto del valore, materiale e non, del nostro patrimonio artistico e culturale? Voci non confermate dalla Corte dei conti stimano in 234 miliardi il danno subito.
Ma si può ridurre la cultura, nelle sue molteplici fonti, ad un numero da inserire in bilancio? Ci ha provato uno studio realizzato dalla Fondazione Symbola e dall’Unioncamere (“Io sono cultura. L’Italia della qualità e della bellezza sfida la crisi”) che mettendo assieme gli incassi di mostre, musei, monumenti con le entrate garantite dall’indotto — dall’artigianato agli alberghi, alla filiera culturale portata alla sua massima espansione — stima in 214,2 miliardi di euro la ricchezza prodotta dall’ampio settore. Il 15,3 per cento del Pil, un vero e proprio tesoro accumulato nel “campo dei miracoli” del sistema cultura. Dove un euro speso per visitare un museo ne genera altri due in termini di ricchezza per il territorio.
A sentire Federculture, l’associazione delle aziende pubbliche e private che operano nel settore, più che di una realtà si tratta però di un potenziale. «Siamo il Paese con la più alta densità e qualità di siti culturali e la Corte dei conti fa bene a chiedere che di questo patrimonio si tenga conto valutando il rating — precisa il presidente Roberto Grossi — ma essere belli non basta. Al di là dei tagli negli investimenti alla cultura, manca una politica di sviluppo e la capacità gestionale nel fornire offerta. Ancora non ci rendiamo conto che senza la tecnologia non si vada nessuna parte: dei 3.800 musei presenti sul territorio solo il 3 per cento ha una applicazione per lo smartphone, solo il 6 è dotato di audioguide o dispositivi digitali. La convivenza fra pubblico e privato non è scandalosa: è necessaria».
Essere belli, appunto, non basta. E di fatto negli indici di attrattività del Paese (Country brand index) se siamo stabili al primo posto per la voce cultura, tenendo conto della qualità della vita offerta, della sicurezza, delle infrastrutture scivoliamo, nell’indice globale, alla quindicesimo gradino.
Un dato rilevante, nell’iniziativa della Corte dei conti, lo scorge Paolo Leon, fra i padri fondatori delle discipline economiche che indagano le vicende culturali, direttore della rivistaEconomia della cultura (il Mulino): «È la prima volta che un organo pubblico di quel rango considera il patrimonio storico-artistico e di paesaggio come parte del capitale collettivo della nazione. In fondo lo Stato ha protetto, come ha potuto, i nostri beni, ma non ha mai riconosciuto il loro valore». Valore: ma qual è il valore di un palazzo cinquecentesco o di una torre medievale? È possibile attribuirgliene uno? Annalisa Cicerchia, anche lei economista della cultura, la prende alla lontana: «Il valore non è fra le proprietà intrinseche di un bene. È legato alla capacità di soddisfare bisogni. Qual è il valore del paesaggio toscano, paesaggio simbolo del nostro paese? Da quando i primi inglesi hanno scoperto i casali abbandonati e li hanno comprati, sono arrivati tanti altri inglesi e i valori immobiliari sono cresciuti. È cresciuto con loro il valore del paesaggio? Indirettamente sì. Anche se è possibile quantificare solo l’incremento medio del costo a metro quadrato di un immobile». Leon è affezionato all’idea che un bene culturale, conservato, tutelato e fruibile, assicuri effetti positivi a una comunità nel suo complesso e non solo alle sue tasche. In linea teorica valutazioni monetarie si possono compiere. «Quantificare il valore del Colosseo è facilissimo, lo hanno già fatto. Più difficile è quantificare Dante Alighieri». Ma ha senso la quantificazione, se nessuno può comprarlo l’Anfiteatro Flavio? «Il problema è proprio questo», prosegue Leon. «È che alle agenzie di rating non interessa tanto il contributo della cultura al valore del patrimonio collettivo quanto il valore di mercato della fruibilità del bene». Leon di valutazioni monetarie ne ha compiute nella sua carriera. È capitato con le mura di Ferrara disegnate da Biagio Rossetti fra la fine del Quattrocento e i primi del Cinquecento: «Abbiamo calcolato quanto spazio quelle mura hanno sottratto a una potenziale espansione della città proprio in quel luogo: il mancato guadagno in termini, diciamo, di speculazione edilizia è il valore di quelle mura». Ma si tratta di un valore ipotetico che, indicizzato nei secoli, serve ai cittadini di Ferrara, insieme alla sua bellezza intrinseca, per capire che importanza ha la cinta muraria e quanto conviene tutelarla al meglio. Non essendoci compratori possibili, quel valore serve ad aumentare la consapevolezza civica. E se quel bene, per assurdo, fosse rimuovibile, esportabile? «Tutto ciò che è esportabile ha valore», replica Leon, «ma ricordo il dibattito di alcuni anni fa quando qualcuno disse: perché non vendiamo i tanti cocci che abbiamo nei depositi, che nessuno vede, che farebbero felici i musei americani e che ci farebbero incassare tanti soldi? Si scoprì che avremmo guadagnato pochissimo e qualcuno si rese conto che se si fosse aperta una breccia con i pezzi dei depositi, poi si sarebbe passati a vendere ben altro».
Il Colosseo non è vendibile, come non è vendibile l’area archeologica pompeiana. Non avendo mercato, non hanno un valore monetario. Ma spunta un altro problema. «In Italia abbiamo elenchi di musei e di aree archeologiche, ma non abbiamo un elenco del patrimonio immobiliare storico-artistico», insiste Cicerchia. «Lo rilevava anni fa l’economista Giacomo Vaciago, ci avevano provato a stilarne uno Franco Modigliani e Fiorella Kostoris, ma da allora nulla è cambiato: l’ultimo censimento risale alla Carta del rischio del 1996».
Senza un elenco non si può fare una stima complessiva. E non si può fissare un prezzo, sostengono all’unisono gli economisti che si occupano di cultura. Più percorribili sono altre strade di ricerca. Una la indica Leon: «Non è possibile escludere la cultura, o l’ambiente, dagli indicatori di benessere di una comunità». Cicerchia invita a seguire le linee fissate da economisti come Jean-Paul Fitoussi che spingeva ad andare “oltre il Pil”, una direzione intrapresa anche dall’Ocse, che ha sollecitato a includere il paesaggio e la partecipazione ad attività culturali fra i fattori che segnalano il benessere. Leon: «Ne parlavamo molti anni fa con Renato Nicolini, allora assessore romano alla Cultura: non sarebbe meglio, dicevamo, se si smettesse di scaraventare ragazzini demotivati in giro per le città d’arte e invece si inserisse la visita a un museo come parte integrante del curriculum, intrecciandola con lo studio della storia, della geografia e della scienza e non abbandonandola al genere gita scolastica? Ne guadagneremmo tanto, in termini economici come paese, perché formeremmo cittadini migliori e più profondi. Ecco qual è il valore dei beni culturali».

Repubblica 6.2.14

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“I nostri beni immateriali non sono merce in vendita”, di Salvatore Settis

Ci siamo allenati fin troppo, in questi anni devastati e feroci, a monetizzare ogni valore, ad attaccare il cartellino del prezzo al collo di tutte le statue, alla croce di tutte le chiese, a ripetere come una giaculatoria la stupida formula dei “giacimenti di petrolio”, degradando il nostro patrimonio a serbatoio da svuotarsi per far cassa, senza nulla lasciare alle generazioni future. Ma il patrimonio culturale non è petrolio, è l’aria che respiriamo, il sangue nelle vene, la carne di cui siamo fatti. È per la comunità dei cittadini (quella che l’art.9 della Costituzione chiama Nazione) ciò che la memoria e l’anima sono per ognuno di noi. Non c’è prezzo che tenga, i 234 miliardi chiesti a Standard & Poor’s non bastano per un verso di Dante (o di Omero, o di Shakespeare).
Alle effimere improvvisazioni dei prezzatori nostrani contrapponiamo la riflessione ben più seria di chi ha mostrato di saper riflettere sui valori del patrimonio culturale. Basta varcare le Alpi, e appena giunti in Francia ci coglie un moto d’invidia. Il rapporto “L’économie de l’immateriel” considera i valori immateriali (non prezzabili) come il fondamento della crescita di domani: «C’è una ricchezza inesauribile, fonte di sviluppo e di prosperità: il talento e la passione delle donne e degli uomini», si legge nella prima pagina. Talento e passione innescati, alimentati, sorretti dalla memoria culturale. Il rapporto, firmato da Maurice Lévi e Jean-Pierre Jouyet, è stato commissionato dal ministero dell’Economia, e giunge alla conclusione che i valori immateriali «nascondono un enorme potenziale di crescita, che può stimolare l’economia della Francia generando centinaia di migliaia di posti di lavoro, e conservandone altrettanti che sarebbero altrimenti in pericolo». Un ministro dell’Economia italiano che si ponga questo problema non si è mai visto. Ma possiamo almeno sperare che i nostri ministri dell’Economia, dei Beni culturali, dell’Istruzione, dell’Ambiente, si mettano intorno a un tavolo col presidente del Consiglio, e magari qualche esperto della Corte dei conti, a studiare collegialmente il rapporto dei cugini d’Oltralpe? Imparerebbero, per esempio, che la confusione tutta italiana fra il “mecenatismo”, la “sponsorizzazione” e l’invasione di imprese for profit nei musei svanisce tra Ventimiglia e Mentone. E che, eliminata questa confusione, l’eterno dibattito su pubblico e privato avrebbe l’unica possibile svolta virtuosa, adottando il principio della commissione Lévi-Jouyet: «Condurre azioni di interesse generale con il concorso di finanziamenti privati», ma distinguendo fra il privato che intende donare (come la Fondazione Packard a Ercolano) e l’impresa che guadagna sulla biglietteria (secondo la sezione Lazio della Corte dei conti, nell’area archeologica di Roma il 69,8% degli incassi finisce al Gruppo Mondadori, alla Soprintendenza resta il 30,2%; a Palazzo Venezia, Civita prende il 70,75%, la Soprintendenza il 20,25%).
È possibile normare l’immateriale anche in Italia, senza i vaneggiamenti sui “giacimenti culturali” che ci appestano da decenni? È possibile distinguere chi entra in un museo con lo spirito del donatore da chi vi entra solo per far profitti? Sarebbe più facile rispondere “sì”, se il Parlamento si decidesse a dare al governo la delega per l’aggiornamento del Codice dei beni culturali (è in programma da giugno, senza nulla di fatto). Se si leggesse con attenzione, prima del rapporto francese, la Costituzione italiana.

da Repubblica 6.2.14