cultura, politica italiana

"Quando il “plebeismo” entra in Parlamento. Le istituzioni contaminate", di Nadia Urbinati

Tutto si svolge come in un combattimento al Colosseo. Prevale il linguaggio volgare di chi “non fa prigionieri”. Le manifestazioni dei Forconi non sono troppo diverse da quanto avviene nell’emiciclo di Montecitorio

Nella democrazia post-partitica il pubblico è una come un occhio senza corpo, informe e gestito da chi sa meglio attivare le emozioni, fare audience. L’arte del parlare in pubblico cambia di conseguenza, non solo nella sfera delle opinioni ma anche nelle istituzioni, intrappolandole nella logica teatrale. Lo stile che ha successo non è il dialogo tra cittadini sulle questioni di loro interesse, ma la dichiarazione ad effetto, l’espressione immediata e diretta del sentire soggettivo in reazione agli eventi esposti al pubblico occhio, non per informarlo ma per tenerlo dalla propria parte. Il pubblico come arte del nascondimento per mezzo delle immagini: un paradosso del nostro tempo di “democrazia in diretta”. È il giudizio estetico che governa la scena invece di quello politico: la centralità dei simboli sui programmi, della figura del leader sul collettivo del partito, delle qualità estetiche su quelle pratiche (la sessualità invece della prudenza, l’aspetto fisico invece della competenza). Il giudizio come questione di gusto intercetta e codifica luoghi comuni e pregiudizi diffusi, che entrato prepotenti nel linguaggio pubblico colonizzandolo e deturpandolo.
I programmi televisivi sono le aule scolastiche nelle quali si è formata questa politica plebea. Anche quando dovrebbero avere lo scopo di discutere dei problemi d’attualità, sono condotti come corride, più interessati a registrare largoascolto che a costruire opinione ragionata – anche perché hanno col tempo abituato gli spettatori a desiderare quel che gli propinano: lo scontro e la demolizione dell’avversario. Del resto, il giudizio veloce sulla persona fa più audience della discussione sulle idee (“Fassina, chi?” si è dimostrato uno schema di giudizio di grande efficacia). Uomini politici e dello spettacolo (spesso identificati concretamente come nel caso di Grillo) coltivano il loro pubblico grazie all’uso studiato di un linguaggio volgare che non fa prigionieri. E così, l’avversario politico diventa un bersaglio di dileggio, mentre l’amico di partito o di blog un alleato gregario. La sfera pubblica come il Colosseo, dentro e fuori delle istituzioni. Le manifestazioni dei forconi non sono diverse nello stile dalle baruffe che animano l’emiciclo del Parlamento.
La politica plebea ha bisogno dell’audience per alimentarsi. Cerca negli spettatori il consenso complice e lo trova: perché l’offesa urlata sa di cadere in un terreno fertile, in un pubblico che la condivide e la ripete. Le offese alle donne e a Laura Boldrini gridate dai parlamentari del M5S sono rappresentative di luoghi comuni diffusi: non sono eccezioni e non sono casi isolati. Del resto se quei parlamentari hanno cercato la platea televisiva era perché sapevano di trovare approvazione. L’occhio televisivo ha fatto da mezzo scatenante, come a confermare quanta osmosi ci sia tra dentro e fuori le istituzioni, quanto unitario sia il clima e lo stile della sfera pubblica.
La politica plebea è una versione deturpata della sfera pubblica democratica, facile da attecchire quando i partiti fanno secessione dallo spazio sociale rinchiudendosi nelle istituzioni. Perché a metterli in comunicazione può a quel punto essere solo una serie eclatante di eventi: i parlamentari devono fare notizia per essere visibili al loro pubblico. È questa distanza che contribuisce a rendere il discorso politico un’arte privata che deve toccare le corde del gusto, essere di godimento come l’urlo, la risata, la baruffa. Il paradosso è che l’audience plebea è un pubblico passivo di uno spettacolo che non mette in scena, un occhio reattivo che non controlla nulla. Tutto avviene dietro le quinte; in diretta restano le parole violente e le offese.

Repubblica 6.2.14

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“Perché si prende di mira il corpo femminile. Se la donna è una ossessione”, di Massimo Recalcati

Quando irrompe l’insulto ogni forma di dialogo diviene impossibile perché la condizione del dialogo – sulla quale si sostiene ogni democrazia – è il riconoscimento di eguale dignità dell’interlocutore. L’insulto è l’irruzione di uno stop, di una violenza che rende la parola stessa una sorta di oggetto contundente. Nei recenti episodi che hanno coinvolto il leader del M5S e i sui adepti esso si è però colorato di un riferimento forte alla sessualità che sarebbe opportuno non sottovalutare. Perché? L’insulto sessista scavalca il dibattito politico pretendendo di toccare direttamente l’essere dell’avversario. L’odio più puro non è infatti per le idee, ma per l’essere: negro, comunista, ebreo, gay, donna? Il politico regredisce qui alla dimensione ciecamente pulsionale del pre-politico. Il nemico non è qualcuno che ha idee diverse dalle mie, ma è un impuro, un essere profondamente corrotto, indegno, privo di etica, per definizione reietto. Una donna è per il leader del M5S questo? Perché altrimenti suggerire la fantasia di cosa si potrebbe fare alla Boldrini avendocela in auto? A chi verrebbe mai in mente di proporre un quesito del genere? Gli psicoanalisti sanno bene che le fantasie non sono mai innocenti perché traducono moti pulsionali inconsci. Che razza di rappresentazione inconscia il leader del M5S ha del femminile? Lo scatenamento delle fantasie sessuali sul web ha fornito unritratto inquietante della pancia del movimento che egli rappresenta. Di questo ritratto vorrei mettere in luce due aspetti particolari.
Il primo è la prossimità perturbante con quella cultura berlusconiana che ha fatto della degradazione del corpo femminile una sua tristissima insegna illuminando così la matrice inconscia di quel movimento che si propone come alternativa al berlusconismo. “Sei una puttana!” “Sai fare solo pompini!” non sono affatto insulti post-ideologici, da bar sport, ma riflettono una ideologia totalitaria in piena regola che riduce la donna a roba, oggetto, strumento di godimento, pezzo di carne da dare in pasto agli appetiti di maschi in calore.
Il secondo è un arcaismo di fondo: quello del padre totemico che gioca coi figli al gioco della rivoluzione senza rendersi conto di quale potenziale ad alto rischio maneggia. Ha allora ragione la Presidente Boldrini a ricordarci che in chi esercita questa violenza verbale si cela uno stupratore potenziale. Con l’aggravante che l’appartenenza ad un collettivo, ad un gruppo in assunto di base rigido direbbe Bion, guidato cioè da un forte ideale di purezza autorizza a ingiuriare le donne rendendo il pericolo dello stupro ancora più reale: i commenti osceni, lo scatenamento di fantasie sadico-aggressive, la regressione dell’umano all’animale disinibito è, come mostra bene Freud ne La psicologia delle masse, un effetto del fare e del sentirsi “massa”. Non c’è limite al Male per coloro che pretende di fare le veci assolute del Bene.
Gramsci sosteneva che il valore etico di una Civiltà dovesse avere come sua misura di fondo la condizione e il rispetto per le donne. Potremmo tradurre questo concetto affermando che la democrazia ha sempre un’essenza femminile. Essa si fonda sulla cura delle relazioni, sulla legge della parola, sull’unione delle differenze, sulla dimensione fatalmente precaria che sempre comporta la vita insieme. L’ingiuria e il disprezzo verso le donne e le istituzioni democratiche non sono l’opposizione legittima all’ingiustizia, ma sono solo l’altra faccia dell’uso perverso e corrotto delle donne e delle istituzioni democratiche che ha fatto nel nostro paese scempio della politica.

Repubblica 6.2.14