partito democratico, politica italiana

"Il giorno del giudizio", di Massimo Giannini

NON serviva il genio della lampada, per capire che la difficile «coabitazione» tra Letta e Renzi non avrebbe retto alla prova dei fatti. Non serviva la malizia dei «disfattisti», per immaginare che la pazienza del premier temporeggiatore non sarebbe stata compatibile con l’urgenza del segretario riformatore. E infatti si avvicina il giorno del giudizio. Il 20 febbraio si capirà se il governo ha la forza per andare avanti, o se il Pd ha la forza per «cambiare schema». Cioè per «traslocare» il suo leader da Palazzo della Signoriaa Palazzo Chigi.
Questa, dunque, è ormai la posta in gioco. Più ancora, forse, delle elezioni anticipate, che pure restano sullo sfondo. I «duellan-», per la prima volta riuniti l’uno di fronte all’altro in direzione, hanno provato a troncare le polemiche e a sopire i conflitti. Fino a un certo punto, hanno cercato di parlare d’altro, riducendo il dibattito al Nazareno a una surreale rimpatriata tra dorotei. Renzi e Letta sembravano Andreotti e Forlani, ricongiunti in una riunione di corrente che offende le intelligenze del partito e le sofferenze del Paese. Il primo a ribadire che il Pd è sempre stato leale con il governo, il secondo a ripetere che lui non vuole galleggiare.
Ma alla fine, grazie all’«operazione verità» reclamata dalla minoranza interna dei Cuperlo e dei Fassina, il Pd ha evitato di lasciarsi intorpidire da quello che lo stesso Renzi ha definito onestamente un pericoloso «processo di democristianizzazione». E il segretario, nella sua replica, ha lasciato cadere l’ultimo tabù. Per la prima volta, il partito che porta sulle spalle il peso di questa «strana maggioranza», si dice pronto a discutere se sia giusto continuare a sostenere questo governo, o se sia invece più opportuno staccare la spina, e pensare a un «cambio di fase».
La fase nuova, oggi, è per il Pd diRenzi il «bivio» del quale ha scritto due giorni fa Claudio Tito. O accettare la soluzione della crisi, e cioè puntare alle elezioni anticipate dopo aver incassato il sì del Parlamento sull’Italicum. O cedere alla tentazione del governo che in molti, dentro e fuori dal suo partito, gli agitano davanti, e cioè puntare direttamente a sostituire Letta a Palazzo Chigi. Ieri, in direzione, il segretario è stato attento a non muovere un solo passo, verso l’una o l’altra strada. Ma alla fine, ed è anche questa una prima volta, ha accettato l’idea che il partito ne discuta a viso aperto, e poi decida. E questa è una svolta importante, forse decisiva per i destini della legislatura.
Renzi è il primo a sapere che per lui, più che una strada, quella di Palazzo Chigi è una «scorciatoia». Magari seducente, ma pericolosissima. C’è un passato da riscattare: il fantasma del D’Alema del ’98 turba ancora i sonni del popolo della sinistra, e l’esecutivo occupato con una «manovra di palazzo» accende ancora gli animi del popolo della destra. Ma più ancora di questo, c’è un presente da difendere: la forza vera del sindaco di Firenze, al di là del mantra della rottamazione, sta proprio nel profilo «popolare» costruito in questi anni e consolidato con le primarie. Un profilo che verrebbe irrimediabilmente sporcato da una «macchinazione» di potere, tipica della Prima Repubblica. Per questo Renzi, giustamente, resiste alle pressioni. Ma potrà ancora farlo se alla direzione del 20 (com’è già in parte successo ieri) il suo partito gli chiede di mettersi in gioco in prima persona?
Letta, per contro, dovrebbe essere il primo a sapere che così il suo governo non può reggere, con la pura inerzia del semestre di presidenza della Ue. Il morso della disoccupazione non si allenta con un più 0,3% di Pil nell’ultimo trimestre del 2013. L’urto della recessione non si attenua con l’obolo da 500 milioni degli emiri del Kuwait. Il prestigio dell’esecutivo non si recupera spostando qualche ministro da una poltrona all’altra. Un rimpasto ha senso se è al servizio di un piattaforma programmatica rinnovata e potenziata. Altrimenti resta un’operazione di cosmesi politica, dalla quale il Paese non trae alcun vantaggio. Serve una scossa, e sta al premier imprimerla. Ma finora non è arrivata. E l’intervento alla direzione di ieri, purtroppo, non è stato confortante.
La strada maestra, per uscire da questa palude italiana, sarebbe dunque quella del voto. Subito dopo il via libera alla nuova legge elettorale debitamente corretta, anche con una clausola di salvaguardia sul Senato. Ma qui entrano in gioco altri due attori. Il primo è il più imprevedibile, e si chiama Silvio Berlusconi. L’asse che lo lega a Renzi sull’Italicum si è indebolito, dopo lo strappo deciso da Grasso a Palazzo Madama sul processo per la compravendita di De Gregorio. Se il Cavaliere decide di romperlo del tutto, come ha sempre fatto da vent’anni a questa parte, il Paese precipita in un caos. E del caos, come sempre, si giovano l’antipolitica e i populismi, cioè Grillo e lo stesso Berlusconi. Non certo il Pd.
Il secondo attore è il più affidabile, e si chiama Giorgio Napolitano. Il presidente della Repubblica guarda con preoccupazione allo sfarinamento del quadro politico, ma è restio all’idea di un cambio di governo «in corsa» e meno che mai di uno scioglimento anticipato delle Camere. I timori del capo dello Stato sono fondati e comprensibili. Ma anche Napolitano vede quello che vedono tutti gli italiani: senza riforme, l’Italia va a fondo. Fino a quando possiamo permettercelo?

da La Repubblica