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"La tregua può fare il gioco della destra", di Elisabetta Gualmini

È tornato, a quanto pare per rimanere, almeno un anno, il governo di servizio. Ieri alla direzione del Pd, Matteo Renzi ha ricondotto il Letta-Alfano alla sua natura e alla sua misura. Un governo anomalo, speciale, frutto della paralisi successiva alle elezioni del 2013, di cui il Pd è diventato l’azionista di gran lunga maggiore, di cui continua ad essere il sostenitore più leale, ma che non può riconoscere come il «suo» governo. In questo quadro, al presidente del Consiglio spetta la gestione del personale (con eventuale rimpasto) e l’ordinaria amministrazione. Al Pd il compito di dettare, passo dopo passo, un’agenda sufficientemente ambiziosa. Enrico Letta, fa buon viso a un gioco che al tempo stesso gli concede il tempo richiesto e lo ridimensiona. Parla del partito-comunità, di un gioco di squadra, implicitamente riconoscendo a Renzi la fascia del capitano.
Lo scambio è chiaro. Innanzitutto il Pd confida di incassare la riforma del sistema elettorale, scongiura il baratro proporzionalista predisposto dai giudici della Corte Costituzionale, ristabilisce le condizioni minime per un ritorno al voto (in qualsiasi momento) secondo una logica bipolare.
Aquel punto, la prospettiva della riforma costituzionale, inizialmente salutata con sollievo dagli altri partner del governo Letta, Alfano in primis, come una assicurazione sulla vita, diventerà un ulteriore impegno vincolante, prendere o lasciare. La condizione senza la quale si torna al voto. Ma l’impegno non è leggero. La riforma della riforma del Titolo V, con l’abolizione delle competenze concorrenti Stato-Regioni, farà forse arrabbiare qualche governatore ma non dovrebbe trovare resistenze insormontabili nei gruppi parlamentari. Lo stesso vale per il taglio delle indennità dei consiglieri regionali.
Ma smontare il bicameralismo è tutt’altra impresa. Si tratta del cambiamento di gran lunga più ambizioso e incisivo tra quelli variamente ipotizzati nel più che trentennale dibattito intorno alle riforme istituzionali. Fino ad ora solo pochi isolati visionari avevano proposto di trasformare così radicalmente il Senato. Tutte le proposte avanzate dai maggiori partiti e dalle varie commissioni di esperti si sono sempre fermate un passo prima, nel presupposto (o con l’obiettivo) di mantenere in vita due corpi di parlamentari a tempo pieno, con quanto ne consegue. Renzi propone invece una soluzione simil-tedesca, con una seconda camera composta in prevalenza da componenti di diritto per il ruolo svolto nei governi territoriali (presidenti di Regione e sindaci dei Comuni capoluogo), con eliminazione di indennità e poteri circoscritti. La riduzione del numero di parlamentari che ne deriva, da 945 a 630, è una minuzia rispetto all’alleggerimento complessivo del sistema istituzionale.
Intorno a questo schema di gioco Renzi e Letta hanno siglato una tregua, che potrebbe funzionare se il Parlamento non si ingolfa e vota le riforme.
Tutto bene? Probabilmente bene se le cose andranno così per il paese. Non necessariamente per il Pd e per il centrosinistra, che rischiano per l’ennesima volta di aggiustare la situazione preparando la strada a una alternanza vantaggiosa per i loro avversari, come è andata fino ad oggi. Due fantasmi si aggiravano per la direzione Pd, tutti e due per ora verbalmente irrisi, ma pronti a materializzarsi come in un incubo.
Renzi e Letta si raccontano all’unisono che il pacchetto all inclusive di riforme sulle regole e una voce più autorevole in Europa possano ridimensionare l’onda anomala della protesta che un anno fa ha travolto destra e sinistra. Ma non bastano nuove regole e un Parlamento più rapido per proiettarci nel migliore dei mondi possibili. Pezzi interi della classe media, con figli super-istruiti (ma senza prospettive), si sono arruolati con entusiasmo nell’esercito di Grillo, per colpire i partiti che negli ultimi 20 anni hanno ascoltato se stessi invece dei cittadini, preoccupandosi moltissimo della loro autoconservazione e pochissimo del paese. Questi elettori non torneranno così facilmente a votare per quegli stessi partiti, nonostante il cambio di facce e di ritmo. Così come non si può affatto escludere che dopo un anno di purgatorio, la ritrovata coalizione Fi-Lega-Udc e altre sigle eventuali non ritrovi il feeling con la larga quota dormiente di elettori moderati che hanno fatto vincere il centrodestra nel 1994, nel 2001 e nel 2008.

da La Stampa