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"L’errore che D’Alema ha pagato per sempre", di Fabrizio Rondolino

Il 21 ottobre 1998 il segretario dei Ds arrivò a palazzo Chigi senza passare dalle elezioni. Come potrebbe capitare oggi a Renzi. Sicuri sia una buona idea?

Il 21 ottobre 1998 Massimo D’Alema, segretario del maggior partito della coalizione di centrosinistra che due anni prima aveva vinto le elezioni, giurò nelle mani del presidente della repubblica. Due giorni dopo la camera votò la fiducia al suo governo – il primo (e con ogni probabilità l’ultimo) guidato da un ex comunista.

L’ipotesi che Matteo Renzi sostituisca Enrico Letta a palazzo Chigi nelle prossime settimane – un’ipotesi sciagurata, è bene dirlo subito – ha riportato alle mente di molti osservatori e di qualche protagonista gli eventi di sedici anni fa. Eventi che, a giudizio dello stesso D’Alema, costituiscono il suo unico, vero, riconosciuto errore politico.

Le differenze, va sottolineato, sono anche più numerose delle somiglianze, a cominciare dal fatto che Letta non è stato scelto dagli elettori per guidare un governo di centrosinistra, ma è stato scelto dal presidente della Repubblica per dar vita ad una “grande coalizione” frutto dell’impasse elettorale. L’ipotetico gabinetto Renzi, dunque, e tanto più se allargato a Forza Italia con l’intento di fare insieme le rifome, sarebbe una semplice replica del governo attuale, e anzi ne rinvigorirebbe lo spirito iniziale (per un’ulteriore curiosa coincidenza, va tuttavia ricordato che D’Alema andò a palazzo Chigi dopo aver presieduto per un anno e mezzo la Bicamerale, naufragata, proprio come il programma costituente del governo Letta, per una repentina marcia indietro di Berlusconi in seguito ad un’iniziativa giudiziaria nei suoi confronti).

Nella rievocazione di quegli anni ha sempre prevalso la vulgata prodiana, e cioè il racconto del tradimento e dell’usurpazione – peccato originale di una sinistra che nel ventennio berlusconiano ha saputo soltanto perdere, anche quando ha vinto. Persino la recente avventura dei 101 franchi tiratori che hanno impedito l’ingresso di Prodi al Quirinale è citata come prova retroattiva degli intrighi dalemiani degli anni Novanta.

In quel periodo lavoravo con D’Alema: e dunque il mio giudizio, per quanto possa sforzarmi, resta parziale. Non ho tuttavia memoria di alcun intrigo: anzi. D’Alema fino all’ultimo cercò di portare Ciampi alla guida del governo (e questo è stato confermato dall’interessato in un suo libro), e soltanto di fronte al veto dello stesso Prodi e alla ferma contrarietà di Scalfaro a sciogliere le camere accettò infine la presidenza del consiglio.

Ma non è questo il punto. Per cogliere le affinità con la vicenda renziana di questi giorni bisogna sforzarsi di tornare allo spirito, all’atmosfera, al sentimento politico di quegli anni.

Massimo D’Alema era considerato l’architetto del “ribaltone” che mandò Berlusconi all’opposizione a pochi mesi dal trionfo elettorale e lo stratega della successiva vittoria dell’Ulivo. Aveva staccato Bossi dal Cavaliere, si era “inventato” con Nino Andreatta la candidatura di Prodi chiudendo un patto di ferro con i Popolari, aveva sfilato Dini al centrodestra. Ma, soprattutto, era percepito come l’uomo nuovo, il “rinnovatore”, il riformista che avrebbe finalmente modernizzato la sinistra e costruito un “Paese normale”. D’Alema piaceva alla Confindustria, incuriosiva gli americani, affascinava gli editorialisti, non spaventava i berlusconiani e, sebbene fosse notoria la sua antipatia per i giornalisti, godeva ogni giorno di un’assoluta centralità mediatica.

Quando al congresso dell’Eur, nel febbraio del ’97, propose una radicale riforma del mercato del lavoro e del Welfare, aprendo con la Cgil uno scontro che sembrava definitivo, molti furono certi di aver finalmente trovato il Blair italiano, cioè il leader capace di rompere la crosta conservatrice, consociativa e castale del Paese senza il timore di infrangere i tabù più consolidati della sinistra post-comunista.

D’Alema era più o meno percepito come oggi Renzi: non tanto, e non solo, come il capo della sinistra, ma prima di tutto come il rinnovatore dislocato sulla frontiera della modernità e proprio per questo capace di raccogliere un consenso trasversale.

Nei confronti del governo Prodi, D’Alema non si posizionò molto diversamente da come s’è posizionato Renzi con il governo Letta: da un lato pungolando e stimolando sull’innovazione programmatica, dall’altro aprendo un tavolo costituente con Berlusconi. L’obiettivo era quello di succedere a Prodi alle elezioni successive, e dopo aver portato a termine le riforme costituzionali. Il modello cui lavorava la Bicamerale era quello semipresidenziale, e nel nostro lavoro di staff l’attenzione era di conseguenza concentrata sulla costruzione di un “D’Alema presidente” eletto dal popolo.

Fu la doppia inversione di marcia di Berlusconi (che affondò le riforme) e di Bertinotti (che affondò il governo) a scompaginare i piani, e a creare le condizioni per una presa più ravvicinata di palazzo Chigi. Ricordo un D’Alema molto perplesso, e credo che senza le pressioni insistenti di Scalfaro e Cossiga il suo governo non sarebbe mai nato. Ma è anche vero che, quando l’occasione della presidenza del Consiglio si presentò concretamente sul tavolo, scattò un’altra serie di riflessioni. Da un lato pesò probabilmente l’orgoglio di una tradizione giunta finalmente al suo pieno riconoscimento pubblico: i “figli di un dio minore”, come D’Alema definì gli ex comunisti proprio nei giorni concitati della crisi, finalmente varcavano il portone di palazzo Chigi.

Ma, soprattutto, ci si convinse che dal governo si sarebbero potute fare, finalmente, le riforme fino ad allora soltanto predicate, e che proprio la guida dell’esecutivo avrebbe dato a D’Alema la legittimazione definitiva e il consenso necessari a cambiare l’Italia. I voti, insomma, sarebbero venuti dopo: e, in virtù dell’azione riformatrice del governo, sarebbero stati tanti, e convinti. Ho timore che qualche renziano coltivi in queste ore un’illusione dello stesso tipo.

Il primo governo D’Alema durò poco più di un anno, il secondo appena quattro mesi. A parte la guerra in Kosovo, di quei tempi si ricorda poco. «Quando ero presidente del Consiglio – dirà molti anni dopo D’Alema con l’usuale ironia – avevo una maggioranza ingovernabile, composta da squilibrati degni di attenzione psichiatrica che mi chiedevano di uscire dalla Nato e di dichiarare guerra agli Stati Uniti. Questo ci ha limitato molto».

Quel che è certo, è che dopo quell’esperienza D’Alema non si è più ripreso: il suo profilo di innovatore è stato intaccato per sempre.

La questione, tutto sommato, è molto semplice: se vai al governo (o alla segreteria del partito) con i voti degli italiani, ti fai forte di quei voti per neutralizzare tutti coloro che, per un motivo o per l’altro, ti ostacolano e ti logorano. Se invece è il ceto politico – cioè precisamente coloro che di mestiere ostacolano e logorano – a conferirti l’incarico, il tuo destino è segnato.

da www.europaquotidiano.it