attualità, partito democratico, politica italiana

"Quel vizio antico della staffetta", di Filippo Ceccarelli

La si chiami pure staffetta, ma non lo è, o forse sì. Dipende anche oggi da un’infinità di variabili che da una teorica e generosa collaborazione trascinano e insieme spintonano la parola verso il più inesorabile assassinio politico. In mezzo non c’è nulla. In un prezioso “bloc-notes”, la rubrica che un quarto di secolo fa compilava per l’Europeo, Andreotti vivamente consigliava di «lasciar fuori» dalle vicende del potere «questa terminologia non carica di troppa fortuna».
Con apparente spontaneità raccontava di un suo anonimo corrispondente, primatista mondiale della «5 x 50», che rivendicava al nuoto la primogenitura della staffetta. Ma qualche riga sotto ecco che in una lettera di un ferroviere andreottiano, erano menzionati i «trenistaffetta », quelli cioè che precedevano i convogli del re, «per verificare che non vi fossero imboscate », e qui la sublime malizia del Divo superava se stessa: «Un po’ come gli assaggiatori nelle messe papali, quando c’era l’hobby dei veleni».
Tutto questo per ribadire — ma Renzi&Letta lo sanno benissimo — l’inconfessabile corrispondenza che esiste fra la staffetta e a chi la subisce. Non occorrono
Machiavelli né repertori di nefandezze curiali per avere la conferma che il delitto accompagna quasi tutti i passaggi del potere. La cosa singolare, semmai, è che proprio ad Andreotti si deve la configurazione e il lancio della staffetta.
Senza troppo addentrarsi: nell’estate del lontano 1986 la Dc, consule Ciriaco De Mita, era finalmente e faticosamente riuscita a sbalzare da Palazzo Chigi Bettino Craxi, al culmine del suo successo. Al che il Divo, allora ministro degli Esteri, cercò di rappattumare non tanto l’alleanza, quanto il governo, comunque lasciando intravedere ai due leader la possibilità che nella primavera seguente, il capo socialista si sarebbe ritirato favorendo il ritorno di un dc alla presidenza del Consiglio.
Non si è mai capito il tasso di oscura ambiguità che recava in sè quell’innaturale programma che prese appunto il nome di staffetta. Fatto sta che i dc presero ad innalzarla al rango di patto, mentre al solo sentirla nominare Craxi reagiva con sonori mugugni e criptiche alzate di spalle, quando in un dibattito tv non diede dell’»insolente» a Gianni Letta che gliel’aveva ricordata.
Di sicuro sulla faccenda si creò un’ampia letteratura e in qualche misura anche una leggenda. Fu scritto che De Mita pretendeva dal presidente della Repubblica, il docile Cossiga di allora, una sorta di legittimazione costituzionale della staffetta; così come si potè leggere che Giuliano Amato, il braccio destro di Bettino a Palazzo Chigi, aveva affidato a un suo allievo una tesi di laurea sulle implicazioni, sempre istituzionali, del sempre più fantasmatico concordato.
Ragion per cui, col senno di poi e un pensierino a Enrichetto e Matteuccio, è irresistibile segnalare che gli unici a vederci lungo furono due personaggi ben fuori dal sacro recinto della politica; con il che una cartomante rom incontrata da Craxi in un ristorante di Belgrado, e poi il santone indiano Sai Baba, presso cui viveva il fratello del leader socialista, esclusero nel modo più assoluto ogni sorta di concordata alternanza al governo.
In primavera Bettino si fece intervistare da Minoli, a Mixer, e alla fine, con rabbioso sollievo, emise un sospiro dei suoi: «E così abbiamo liquidato la staffetta». De Mita, che qualche ragione doveva avere, andò su tutte le furie qualificando l’alleato-nemico «inaffidabile ». In pieno congresso riminese del tempio greco, Craxi rispose per le rime.
Il Mattino, che più demitiano non si poteva, lo espose a modello di ancestrale menzogna inchiodandolo al detto: «O’ vuoie cu’ le corn’, l’omm’ cu’ la parola», il bue con le corna, l’uomo con la parola. Fu la crisi, seguita da una violenta campagna elettorale.
Dopo di che per dieci anni si ebbe qualche comprensibile ritegno a ritirare fuori l’ipocrita e impossibile staffetta. Ma la memoria del potere è più corta di quanto dovrebbe e ancor più di quanto si possa immaginare. Così alla fine del 1997, quando Prodi governava e già da un pezzo D’Alema smaniava per governare lui, che tanto aveva fatto per conseguire quel risultato, ecco che quella paroletta si riaffacciò nelle cronache della conferenza di fine anno. Non è che si toglierebbe di mezzo per dare il cambio al baffuto leader del Pds?
Il leader dell’Ulivo diede in quel caso una risposta di circostanza, il classico buon viso a cattivo gioco. Passarono diversi mesi. Il 2 di ottobre del 1998 toccò al giovane vicesegretario del Ppi Enrico Letta — guarda che combinazione! — di scongiurare l’ipotesi: «E’ nocivo parlare di staffetta, è disinformazione». Il giorno 5, non senza rampogna d’ordinanza ai giornalisti retroscenisti, fu D’Alema a escludere ogni staffetta pronunciando le ultime parole famose: «Non ci saranno soluzioni di questo tipo… Io sono una persona rispettabile e trovo stupefacenti queste ipotesi». Il 19 ottobre ebbe l’incarico di formare il governo.
E vabbè che è sempre vano nel gioco del potere invocare pudore e coerenza. Ma appena quattro giorni fa, dinanzi all’eventualità di una staffetta, Matteo Renzi aveva negato con irridente twitter: «Nun ce provà!». Alla romana. Anvedi che impunito.

da La Repubblica