ambiente, economia

“Ecco la gastronomia della liberazione”, di Carlo Petrini

Il fondatore di Slow Food incontra Graziano da Silva, da due anni direttore generale della Fao. E, insieme, spiegano come i piccoli contadini possono riuscire a sconfiggere la fame nel mondo

Personalità della cultura, dello spettacolo, del mondo accademico, opinion leader e intellettuali saranno chiamati a confrontarsi sui grandi temi della sostenibilità, del sistema alimentare mondiale, dei cambiamenti che passano attraverso un nuovo approccio verso il cibo. Storie legate a Terra Madre, la rete mondiale delle comunità del cibo, e al suo concetto di ambiente, agricoltura, economia e rapporti sociali. Iniziamo con José Graziano da Silva, direttore generale della Fao, protagonista di una via inedita nel contrastare la fame nel mondo. È stato ministro straordinario del governo Lula in Brasile, dove ha fatto partire il programma Fame Zero, in grado di fare uscire dalla soglia di povertà 28 milioni di brasiliani. Si spera che le stesse forza e determinazione possano servire a un futuro dove la vergogna
della fame sia debellata per sempre.
Il 2014 è stato scelto dalla Fao come anno mondiale dell’agricoltura famigliare. Quest’iniziativa segna ulteriormente uno storico cambio di priorità per la Fao: non più l’inseguimento a tutti i costi di aumenti di produzione a livello globale, ma un rafforzamento delle microeconomie agricole locali, in grado di garantire una dignitosa sussistenza nelle regioni più problematiche.
«In tutto il mondo gli agricoltori famigliari provvedono a produrre cibo, impiego e reddito per miliardi di persone. Non dimentichiamo che più del 70% delle popolazioni che vivono in stato d’insicurezza alimentare risiedono in zone rurali nei Paesi in via di sviluppo. In grande parte si tratta di agricoltori famigliari, produttori di sussistenza, che coltivano per l’autoconsumo. Fino a non molto tempo fa, per questo motivo, erano visti soltanto come un soggetto a cui dedicare delle politiche sociali, e non come importanti attori produttivi. Erano considerati parte del problema della fame nel mondo, mentre sono parte della soluzione. Con l’anno mondiale dell’agricoltura famigliare vogliamo cambiare questo vecchio modo di pensare, introdurre un nuovo paradigma».
Lo trovo un approccio vincente, che ho potuto verificare grazie alla rete di Terra Madre: più di 2.000 comunità del cibo connesse tra loro, di cui molti produttori famigliari, in oltre 150 Stati. Questi agricoltori dimostrano che la sovranità e la sicurezza alimentari dipendono in gran parte dalla piccola e media produzione, soprattutto dove non ci sono le condizioni strutturali, climatiche e culturali per introdurre altri modi di fare agricoltura. Nel rapporto 2013 della commissione Commercio e sviluppo dell’Onu si legge: «Bisogna passare dalla Rivoluzione verde (innovazioni tecnologiche come varietà vegetali geneticamente selezionate, fertilizzanti, fitofarmaci, che tra gli anni ’40 e ‘70 hanno aumentato la produzione in tutto il mondo ma anche l’impatto ecologico insostenibile) a un’Intensificazione ecologica, a un mosaico di sistemi di piccola scala, sostenibili e rigenerativi, che consente un considerabile aumento della produttività».
«Sì, il nostro futuro dipende da un’agricoltura e da sistemi del cibo che devono essere equi, sostenibili ed efficienti. I piccoli contadini, gli indigeni, pescatori e pastori, sono quelli che rispettano queste tre qualità. Dobbiamo aiutarli a sfruttare completamente questo potenziale. La Rivoluzione verde ci aiutò nel dopoguerra, quando non c’era cibo sufficiente. Aumentare la produzione fu la risposta naturale al problema. La disponibilità di cibo pro-capite nel mondo è aumentata del 40% negli ultimi cinquant’anni. Oggi la causa principale della fame non è più la mancanza di cibo, ma il fatto che le popolazioni più povere non possono permettersi di acquistarlo, o non hanno accesso a strumenti, risorse o conoscenze per autoprodurlo. Occorre una nuova rivoluzione, doppiamente verde, che aumenti la produzione preservando l’ambiente».
Per sconfiggere la fame nel mondo, sono stime Fao, servono circa 34 miliardi di dollari. Per salvare le banche in crisi, pochi anni fa, in un paio di giorni sono state stanziate cifre superiori senza problemi. Questo significa che sconfiggere la fame è un obiettivo alla portata dell’umanità, ma non c’è una condivisa volontà di raggiungerlo.
«Dobbiamo unire le forze a tutti i livelli. Appena insediato, mi sono adoperato per creare nuovi rapporti di collaborazione, soprattutto con la società civile, le cooperative e il settore privato. È stato così che per esempio siamo venuti in contatto tra le nostre organizzazioni. Oggi la Fao sta portando avanti molte iniziative con soggetti non governativi come Slow Food. Queste alleanze consentono di operare in maniera più diffusa e complessa di provare nuovi approcci. Un esempio: il libro di ricette pubblicato insieme sulla quinoa (scaricabile su slowfood.it) ci ha consentito di avere anche un approccio gastronomico alla lotta contro la fame, un modo nuovo di agire».
Sono convinto che la gastronomia possa essere uno strumento fondamentale in questa lotta. La chiamo “gastronomia per la liberazione”, perché in tanti Paesi, come in America Latina, consente un riscatto anche nel nome del piacere alimentare. Lì i grandi cuochi diventano i leader di un movimento che sta aiutando gli agricoltori famigliari a far conoscere i loro prodotti tradizionali, dando loro orgoglio e nuove possibilità economiche. Auspico che un processo simile si inneschi presto anche in Africa, ricchissima di risorse e di cultura agroalimentare. Intanto, stiamo iniziando con il progetto di 10.000 orti famigliari,
comunitari e scolastici in Africa. Dopo i primi 1.000 rilanciamo, confortati dai risultati raggiunti. Sono molto felice che la Fao sia al nostro fianco anche in quest’avventura, che presenteremo a Milano il 17 febbraio.
«L’orto è uno strumento importante perché rieduca alla coltivazione, fornisce cibo, ha un basso impatto ambientale e consente, se fatto con le giuste caratteristiche, di mantenere la biodiversità locale grazie all’utilizzo delle varietà tradizionali. Guardo con interesse a questo progetto degli orti in Africa, soprattutto perché li realizzerete grazie a una rete di persone e comunità locali, senza inviare nessuno in missione. Si pongono quindi le basi per un vero sviluppo, che potrà durare nel tempo. All’evento di presentazione so che saranno presenti i giovani africani incaricati di gestire e dirigere il progetto, selezionati tra la vostra rete di Terra Madre e Slow Food e la nostra della Fao. Dobbiamo lavorare per far crescere le classi dirigenti del futuro nel continente africano e il fatto che siano in rete tra di loro, connessi con noi e con voi e con tutti i soggetti che lottano contro la fame e la malnutrizione nel mondo, mi conforta nella convinzione che tutti insieme potremo farcela».

da la Repubblica