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"L’università italiana sempre più vecchia. Solo un docente su 8 ha meno di 40 anni", di Gian Antonio Stella

Agli ultimi posti anche per numero di professoresse e spesa per la ricerca

Ultimissimi. Nessuno, tra tutti i Paesi europei, ha così pochi docenti universitari sotto i quarant’anni. Nessuno. Ne abbiamo, compresi i «giovani» ricercatori, meno di uno ogni otto.Un dato umiliante. La Francia, rispetto a noi, di docenti sotto la quarantina ne ha oltre il doppio. La Gran Bretagna quasi il triplo. La Germania il quadruplo. Uno spreco assurdo di energie, intelligenza, creatività. Che pesa sulla ricerca, sull’innovazione, sul futuro del Paese.
Mette di malumore, la lettura in anteprima della decima edizione (speciale) dell’Annuario Scienza Tecnologia e Società 2014 di Observa Science in Society, curato da Massimiano Bucchi (Università di Trento) e Barbara Saracino (Università di Firenze) ed edito da il Mulino. Mette di malumore perché, certo, puoi trovarci dati assolutamente positivi, come lo spazio che i nostri ragazzi hanno nei laboratori e nei centri d’eccellenza e sulle riviste scientifiche di tutto il mondo. Ma sono fiori che sbocciano dalla fanghiglia di una realtà troppo spesso vecchia, mediocre, trascurata dalla politica.
Spiega il dossier, ad esempio, che i ricercatori italiani pur essendo solo 4,3 ogni mille occupati (gli europei sono mediamente 7 cioè quasi il doppio, i tedeschi 8,1, i francesi 9, i portoghesi 9,9, i danesi 13,4 e i finlandesi addirittura 16) sono ottavi al mondo per articoli sulle riviste che contano (un settimo di quelli statunitensi pur avendo gli americani una dimensione enormemente più grande) e quarti nei progetti di ricerca europei finanziati dal «7° Programma Quadro».
Sono in gamba, i nostri. E il loro successo europeo e mondiale certifica come, nonostante tutto, le nostre scuole e le nostre università riescano a regalare degli studiosi di livello altissimo. Dietro, però, il panorama è sconfortante. E non solo nella scoperta che tra i primi 20 atenei e istituti di ricerca europei piazziamo solo il Cnr (quarto) contro 2 della Svizzera, 2 della Danimarca, 3 della Francia, 3 della Germania e 5 del Regno Unito.
Basti scorrere la tabella dei Paesi che (settore militare escluso, ovvio) spendono di più per la ricerca rispetto al Pil. Con l’1,3% (e va già impercettibilmente meglio che cinque anni fa) siamo ventottesimi, molto al di sotto della media europea (1,9%) e di quella Ocse (2,4%) e staccatissimi dai Paesi che hanno scelto con decisione di puntare sul futuro come il Giappone (3,4%), la Finlandia (3,8%), la Corea (4%) e Israele, che svetta con uno stratosferico 4,4%: quasi il quadruplo di noi.
Vale per il settore pubblico, vale per l’università, vale per il comparto privato. La nostra azienda che più investe in R&S (ricerca e sviluppo) è la Fiat: 2.175 milioni di euro. Ma tra i suoi stessi concorrenti è dietro le grandi case europee e staccatissima dalla Volkswagen che per i suoi laboratori spende molto più del triplo.
È l’intero Paese ad arrancare. Il 92,4% delle famiglie ha almeno un cellulare ma quelle che hanno un computer sono meno di una su sei. E il confronto fra i consumatori di televisione e quelli di Internet è da incubo. Siamo quinti al mondo per il tempo passato davanti al piccolo schermo: quattro ore e 12 minuti. Il doppio abbondante degli svedesi pur avendo loro un inverno lungo lungo che potrebbe invogliare alle lunghe sedute in divano. Per contro, 37 italiani su 100, cioè quasi quattro su dieci (la media europea è del 20%) sono analfabeti del digitale: mai toccato un computer e mai navigato sul web. Vale a dire che su Internet, che già oggi rappresenta una enorme fonte di ricchezza (in un solo giorno, l’11 novembre scorso, i soli consumatori cinesi hanno speso 5 miliardi di dollari e nel 2015 il solo e-commerce cinese varrà 300 miliardi) i nostri cittadini sono staccati di 22 punti dai francesi dai tedeschi, 27 dai britannici, 31 dai danesi e dagli olandesi, 32 dagli svedesi. Un ritardo storico umiliante. Che rischia di aggravare la crisi in cui annaspiamo.
Aggiunge l’Annuario che nella classifica («Innovation Union Scoreboard 2013») dei Paesi europei più innovativi, compilata sulla base di un insieme di 24 indicatori, ci ritroviamo (a dispetto del nostro vanto di essere il secondo Paese manufatturiero continentale) molto al di sotto della media delle 28 nazioni Ue e lontanissimi da quelli di testa: Olanda, Finlandia, Danimarca, Germania e soprattutto Svezia.
È ormai una guerra, la competitività internazionale sulla innovazione. E in guerra, come ricorda sempre Umberto Veronesi parlando proprio della ricerca, devono andarci i giovani. Lo dice la storia. Senza tornare ad Archimede che aveva vent’anni quando intuì la teoria del peso specifico dei materiali o ad Isaac Newton che ne aveva 23 quando cominciò a sviluppare il calcolo infinitesimale o ad altri talenti giovanissimi nei secoli dei secoli, val la pena di ricordare almeno alcuni casi più recenti. Marie Curie ebbe il suo primo Nobel a 37 anni, William Lawrence Bragg vinse quello per gli studi sui raggi X a 25, Albert Einstein si impose nel suo «annus mirabilis» a 26, Guglielmo Marconi dimostrò la bontà del suo telegrafo senza fili con un collegamento con l’isola di Rathlin quando ne aveva 24, Federico Faggin inventò il microchip che ne aveva 30. È la gioventù la stagione della creatività. Poi subentra l’esperienza, ed è importante. Ma la creatività è dei giovani.
Eppure, come dicevamo, il nostro è un Paese per vecchi. Con tutto il rispetto per il loro lavoro: possibile che i ricercatori dell’Enea abbiano mediamente 49 anni e che il 43% di chi in Italia frequenta i laboratori e gli istituti di R&S abbia più di 45 anni e cioè un’età media nettamente più alta di quella degli altri Paesi europei?
Lo vedi anche nella presenza femminile, quanto sia statico e chiuso il mondo della ricerca italiana. Ci sono 41 donne ogni 100 addetti in Sudafrica, quasi 44 in Estonia, 45 in Portogallo, 46 in Romania e 53 in Argentina. Noi siamo al 34,5. Una percentuale ancora più bassa di quella delle donne presenti fra i docenti universitari, ricercatori compresi: ne abbiamo il 36,2 percento. Contro il 43,5 del Regno Unito, il 45,4 del Portogallo, il 47,5 della Romania, il 54,7 della Lituania e addirittura il 58,7% della Lettonia.
Come dicevamo all’inizio, tuttavia, i numeri che fanno più impressione sono quelli sull’invecchiamento della nostra classe dirigente universitaria. Un problema, scusate la battuta, vecchio. Già nel gennaio 2007 una indagine del ministero dell’Università della ricerca sulla base dei codici fiscali accertò che su 18.651 docenti di ruolo nei nostri atenei, quelli con meno di 35 anni erano 9: lo zero virgola zero cinque per cento. Al contrario, quelli con più di 65 anni erano 5.647: quasi un terzo.
Sette anni dopo, i numeri dell’Annuario Scienza Tecnologia e Società 2014 dicono che su 28 Paesi dell’Unione Europea i docenti che hanno meno di quarant’anni (ricercatori compresi e questo dovrebbe abbassare la media) sono quasi la metà (49,2%) in Germania, il 43,4 nei Paesi Bassi, il 40,5 in Polonia, il 35,8 in Portogallo, il 29,5 nel Regno Unito, il 28 in Austria, Svezia e Finlandia, il 27,4 in Spagna, il 25,9 in Francia e giù giù, staccata di oltre sei punti dalla Slovenia che è penultima, c’è l’Italia. Con quel 12,1% di professori e ricercatori insieme che hanno meno del doppio dell’età che aveva Bill Gates quando fondò la Microsoft.

da Il Corriere della Sera