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«Sono qui, ma potrebbe essere l’ultima volta», di Laura Matteucci

L’interrogativo è: ma fuori di qui dove vado? Io un’altra casa non ce l’ho». Domenica pomeriggio in un circolo Pd di Milano, zona centrale: Luisa è presidente di seggio, lo fa da anni, primaria dopo primaria, ma stavolta «sì, per un attimo ho pensato di passare la mano». Invece è lì, un’altra domenica regalata al partito, ancora al lavoro. Anche se di lavoro ce n’è poco, in effetti: alle primarie che incoronarono Renzi in quello stesso circolo votarono oltre 2mila persone, stavolta sono stati accorpati due seggi e «se arriviamo a 100 votanti è tanto ». Così, giusto per farsi un’idea delle proporzioni. D’accordo: nei 661 seggi allestiti la fila, stavolta, non se l’aspettava nessuno. Si elegge la segreteria regionale del Pd: poco battage promozionale per un livello intermedio che non suscita troppe curiosità. Ma qui c’è molto, moltissimo, di più.
«LA BASE NON È STATA ASCOLTATA»
L’aria che tira sulle primarie democratiche di Lombardia è decisamente uggiosa. E non è solo una questione meteorologica. Tessera in mano, nonostante fossero primarie aperte (e in molti casi esibita senza orgoglio), età media oltre gli anta, aria smarrita: il profilo del «comunque votante» è decisamente cambiato rispetto a solo due mesi fa. Nel migliore dei casi, tanta voglia di capire e di giocarsi, comunque, quest’ultimo jolly – «ultimo per me stesso e per tutto il Pd», come dice Giancarlo anche a nome di molti altri – facendo quadrato intorno a Renzi attendendone governo e mosse prossime venture. Altrimenti, solo di sfogare rabbia e delusione. Per la segreteria, qui se la giocavano la civatiana Diana De Marchi e il renziano Alessandro Alfieri, ma al di là di candidati e risultati, è andata più o meno come nelle altre regioni: voti poche migliaia, e quasi solo di tesserati, discussioni tante. Lo sconcerto si riversa sul voto: l’outsider De Marchi, che sembrava dovesse essere una candidatura di mera testimonianza, in molti seggi surclassa il favorito Alfieri.
Delle regionali, ovviamente, si parla poco e niente: dopo aver vagliato la situazione per giorni al chiuso delle proprie case e scaricato batterie intere sui social network, l’ultima chiamata ai seggi di questo percorso congressuale diventa il primo momento di confronto collettivo sui ribaltamenti della settimana. Tutto interno al Pd. La base è scossa: sono discussioni lunghe e accese, filze di domande, giustificazioni e accuse oltranziste, ma per lo più posizioni attendiste e tanta voglia di chiarezza. Giancarlo è un renziano della prima ora, e ammette che «la svolta è stata notevole, sia rispetto alla linea del Pd, sia rispetto a quella personale di Renzi: è ovvio ci sia sorpresa, in molti casi stordimento e indignazione. Anche perché la base non è stata ascoltata per niente». E però. Per spiegare l’accaduto, Giancarlo chiama in causa i «motivi di urgenza, economica e occupazionale». Quindi va sul classico, sulla metafora sportiva: «Quando una squadra sta per perdere che fa? Mette un attaccante. Il nostro è Renzi, è l’ultima carta che abbiamo da giocare. Certo, rischia lui e rischiamo tutti noi. Moltissimo». C’è chi ricorda il prossimo test delle europee di maggio, qualcuno teme il tracollo, altri sono convinti che nel frattempo Renzi sarà riuscito a portare a casa «alcune cose importanti », che «faranno dimenticare» o addirittura «giustificheranno» gli ultimi giorni. Teresa riporta gli umori del suo circolo, Milano nord, dove a fine giornata i voti non sono arrivati a 100 contro i 2000 dell’8 dicembre, comprese molte schede bianche: «Come i renziani, anche i cuperliani sono divisi – dice – c’è chi ha accettato il voto in segreteria, e chi invece parla di guerra tra bande ed è convinto che Cuperlo avrebbe dovuto almeno astenersi».
Sul disagio del militante medio aleggiano intanto le parole di Pippo Civati, che tra l’altro ha votato pure lui in Lombardia, a Monza. L’unico che si è dichiarato contrario al passaggio Letta-Renzi, che ha parlato del disagio di una decina di parlamentari e che ha anche lasciato pensare alla possibilità di una fuoriuscita a sinistra (anche se «non ho mai parlato di scissione», chiarisce poi lanciando l’hastag #Matteo stai sereno »). Provocazione o embrione di progetto che fa gola? «Per me, il Pd resta il progetto più valido – dice il civatiano Luca – E, pensando anche a chi parla di un patto con Berlusconi, non penso che il confronto con Forza Italia possa andare più in là della legge elettorale. Certo, il Pd a febbraio scorso i voti li ha presi con un progetto di centrosinistra, adesso vedremo che linea politica adotterà… ». Come dire, nulla è scontato. Anche Silvia è civatiana, candidata in lista con la De Marchi: «È un azzardo, se Renzi fallisce è finita per lui e per il Pd – dice -Ma la mia è una posizione di lealtà rispetto al partito, voglio fare da stimolo, ma dall’interno. E mi sembra che così la pensino in molti: l’altro giorno il clima era più battagliero, prevaleva la rabbia, adesso c’è voglia di restare uniti e di fare quadrato intorno a Renzi e al nuovo governo». Un’altra civatiana, invece, taglia corto: «Che lo spazio a sinistra ci sia lo sappiamo in tanti. È evidente che bisogna trovare un’alternativa, e che il momento è arrivato». Come dice una vignetta che spopola su Facebook: «Dimmi qualcosa di sinistra. Addio».

L’Unità 17.02.14