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"3% Quel numero-feticcio che governa le nostre vite", di Federico Rampini

Siamo vittime del feticismo dei numeri e non ne conosciamo la ragione. Chi sa dire perché siamo soggetti all’implacabile vincolo del 3%, soglia massima nel rapporto deficit/ Pil? L’Italia con Matteo Renzi a Palazzo Chigi vorrà sondare i margini di flessibilità concessi da Bruxelles, rispetto a quel numero magico e crudele. Ma la validità originaria del 3% viene raramente rimessa in discussione. In Europa, s’intende: perché negli Stati Uniti la “dottrina 3%” è stata ignorata da Barack Obama, poi pubblicamente ripudiata perfino dal Fondo monetario internazionale.
La storia di quel numero “scolpito nella pietra” è complicata, opaca e misteriosa. Risale al 1991, quando viene firmato nella città olandese di Maastricht l’omonimo Trattato, fondamento per l’unione monetaria da realizzarsi nel 1999. Economisti e giuristi che lavorano a quei testi, sotto l’autorevole influenza di Tommaso Padoa Schioppa, esplorano le condizioni per “un’area monetaria ottimale”. In cerca di criteri di stabilità, finiscono per accordarsi sui seguenti parametri per l’accesso all’euro: inflazione non più alta di 1,5 punti rispetto ai tre paesi con il tasso d’inflazione più basso; deficit statale non superiore al 3% del Pil; debito pubblico non superiore al 60% del Pil; stabilità del tasso di cambio nei due anni precedenti l’ingresso nell’unione monetaria; tassi d’interesse di lungo termine non superiori di oltre due punti rispetto ai tre paesi dai tassi più bassi.
Di tutti questi criteri, alcuni non sono mai stati veramente applicati, come quello sul debito (neppure la Germania lo rispetta). Altri hanno perso rilevanza con la creazione dell’euro: i tassi d’interesse e la parità di cambio li decide la Bce a Francoforte, non sono più oggetto di politiche nazionali. E’ rimasta in piedi la dittatura del 3%, il rapporto deficit/Pil è il criterio che può far scattare (se non rispettato) una procedura d’infrazione, trasformare un paese in vigilato speciale, e così lanciare segnali d’allarme ai mercati. Fino a quando, con severe terapie di austerity, il reprobo non rientra nei ranghi. Il 3% è diventato l’unico sacro comandamento nella religione dell’austerity.
Eppure i dubbi su quella cifra furono forti dall’inizio. Uno dei più autorevoli venne dal grande economista italiano Luigi Pasinetti. In un importante saggio pubblicato sul Cambridge Journal of Economics, nel 1998 (un anno prima della nascita dell’euro) Pasinetti attaccò duramente “mito e follìa del 3%”. Non ci andava leggero, parlando di «regno del simbolismo», a proposito di una soglia deficit/ Pil «la cui validità non è mai stata dimostrata». I giudizi di Pasinetti erano implacabili: «Nessuno è mai riuscito a dare una spiegazione plausibile, sul perché quelle cifre furono scelte». Per il 60% di debito/Pil la spiegazione sembrava essere banale: grosso modo era la media europea (e in particolare franco-tedesca) ai tempi in cui veniva negoziato il Trattato di Maastricht. Anche se di lì a poco la riunificazione delle due Germanie avrebbe fatto sballare il rapporto debito/ Pil tedesco… e quella cifra anziché “magica” divenne poco rilevante, fu interpretata subito con tanta flessibilità.
Un tentativo molto più recente di dare fondamento scientifico a quelle cifre, è finito in un clamoroso infortunio: due grandi economisti americani, Kenneth Rogoff e Carmen Reinhardt, hanno dovuto ammettere di avere sbagliato calcoli elementari, omesso statistiche importanti, in un loro studio che doveva dimostrare il nesso tra crescita e rigore di bilancio. Anche in seguito a quell’incidente, il Fondo monetario ha preso le distanze dall’austerity.
Ma il dibattito non è teorico. La confutazione del dogma è avvenuta nei fatti. Negli Stati Uniti, tanto per cominciare. Nell’abisso della recessione del 2009, non appena arrivato alla Casa Bianca Barack Obama varò una maximanovra di investimenti pubblici. Riscoprì il verbo keynesiano, l’insegnamento appreso dall’Occidente nella Grande Depressione degli anni Trenta. Nel primo biennio della presidenza Obama il deficit/Pil schizzò fino a sfiorare il 12%, il quadruplo del limite ammesso dall’“euro-religione” dell’austerity. E la cura ha funzionato. Sia nel bilancio federale, sia in quelli della finanza locale, i conti pubblici americani oggi migliorano in modo spettacolare: grazie alla ripresa (+3% del Pil, più 8 milioni di posti di lavoro), non all’austerity. Stati come la California, città come New York, sono addirittura alle prese con un dilemma positivo: come usare l’improvviso attivo di bilancio, generato non dai tagli bensì dall’economia che cresce e gonfia le entrate fiscali. In modo simile ha reagito il Giappone, si sta risollevando dalla crisi proprio perché ha fatto l’esatto contrario di quel che prescrive la religione del 3%. In quanto agli esempi di “successi” conseguiti dalla terapia europea, di recente si cita l’Irlanda come il caso di una ammalata che si riprende dopo avere applicato disciplinatamente l’austerity. Ma la pseudo- rinascita irlandese è in parte un’illusione statistica: il mercato del lavoro sembra in migliori condizioni perché una consistente quota della popolazione attiva ha ripreso la strada dell’emigrazione (verso Stati Uniti, Canada, Australia) come nel primo Novecento.
In Italia la religione del 3% ha avuto tanti sostenitori in buona fede, per un’altra ragione. Applicare la disciplina dell’austerity sembra un vincolo esterno salvifico, per impedirci di praticare vizi nazionali distruttivi: spese pubbliche parassitarie, clientelari, fonti di sprechi e corruzione. Ma il dogma del 3% impedisce un altro tipo di risanamento: che passa attraverso una consistente riduzione della pressione fiscale sul lavoro, onde restituire potere d’acquisto alle famiglie e rilanciare la crescita.

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“COSÌ UNO STATO PUÒ FINIRE SOTTO ATTACCO”, di ETTORE LIVINI
«Il rapporto deficit/pil al 3% non è un dogma. E’ un limite messo anni fa in condizioni economiche e politiche diverse che può essere ragionevolmente rivisto a patto che l’Italia faccia le riforme in grado di stimolare la crescita in modo strutturale. Anche l’economia deve imparare a muoversi con buon senso!». Guido Maria Brera può dirlo con cognizione di causa. Cofondatore del gruppo Kairos (società di gestione patrimoniale), dopo 20 anni tra bond, azioni e derivati ha deciso di raccontare in un romanzo appena uscito per Rizzoli –
I diavoli – i segreti e i misteri degli uomini che muovono ogni giorno migliaia di miliardi sui listini globali. I burattinai di una finanza «che ha assunto un ruolo biopolitico» – come dice lui – «perché incide ormai direttamente sulla carne delle persone». E lo fa giocando sull’adorazione di alcuni totem: il 3%, i rating e gli spread.
Come abbiamo fatto ad arrivare a questo punto Brera?
«Per un motivo semplice: perché abbiamo deciso di regolare tutto tranne la finanza. Non so se ci sia stato un progetto disegnato a tavolino o meno. Di sicuro oggi ne paghiamo le conseguenze. Negli anni ’90 questo mondo era più focalizzato sulle azioni, quindi sul mondo delle aziende quotate. Ora – grazie a strumenti speculativi sempre più sofisticati che consentono di fare soldi con i soldi – la finanza è diventata
più sistemica fino a speculare sui titoli di stato. E a rischiare di saltare sono interi paesi».
Quando, dopo magari un rialzo dello spread o una revisione di rating, una valuta o un paese si trova sotto attacco, i complottisti dicono che dietro tutto questo c’è una regia. È vero?
«Non so se è un progetto disegnato a tavolino. Di sicuro la turbo-finanza si muove con metodo. Non ha simpatie o antipatie. Cerca occasioni d’investimento, le analizza in modo cinico e obiettivo e alla fine decide di illuminarle con un faro».
E chi lo accende? Una Spectre ai vertici delle banche d’affari, la Trilaterale, il Bilderberg?
«Direi un’elite economica e politica che ha interesse a mostrare una cosa piuttosto che un’altra, a seconda della sua convenienza. Il problema è che al mondo ci sono troppi soldi e che questi soldi devono andare da qualche parte. Se a Tokio battono all’asta un tonno per 1,2 milioni, il problema non è il prezzo del tonno, ma il valore che diamo al denaro. Se la finanza non si fa un’esame di coscienza, rischiamo di andare incontro ad una continua polarizzazione dei redditi con effetti negativi sulla vita di tutti».
In che senso?
«La speculazione così spinta è diventato uno strumento anti-distributivo. Ha mutato la piramide sociale assottigliando drammaticamente la classe media».
Facendo spuntare invece soggetti come il protagonista di
The Wolf of Wall Street…
«Quello è un personaggio datato, figlio di una finanza che non c’è più. Il potere di questo mondo un po’ misterioso è ora più immanente e sistemico. È diventato un “blob” senza volto dove è molto meglio non apparire che apparire. E rischia di travolgere tutto».
Siamo ancora in tempo per fermarlo?
«Spero di sì. I cambiamenti devono arrivare per forza o per amore. E io spero che in questo caso succeda tutto per amore. Dobbiamo regolamentare il mercato dei derivati, separare l’attività commerciale delle banche da quella speculativa, togliere norme dall’economia reale e metterne di più su quella di carta».
Non le pare impossibile? Le grandi banche d’affari ormai muovono molti più soldi degli stati. Non crede sia difficile rimettere loro le briglie?
«Uso una frase di Ezio Tarantelli: “l’utopia dei deboli è la paura dei forti” ».

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“PERCHÉ LA MENTE HA BISOGNO DI CIFRE-LIMITE”, di PAOLO LEGRENZI
Il dibattito contemporaneo usa il concetto di “soglia”. Si è detto: «Accordo sulla legge elettorale: soglia al 37% per il premio di maggioranza». Qui la soglia è un limite da superare: il 37% dei voti. Ma si è anche detto, parlando delle condizioni economiche del paese: «L’Europa ci punisce per aver sforato la soglia del 3% (del rapporto deficit/Pil fissato dai parametri di Maastricht)». Nelle discussioni sulla legge elettorale e in quelle economiche, la parola “soglia” è la stessa. Purtroppo dietro ci stanno due concetti ben diversi. Nel primo caso, “soglia” indica un limite da raggiungere. Per esempio, una persona: devo pesare 55 chili! Ma la stessa persona può fare un calcolo diverso, più complicato: «Siccome sono alta 165 centimetri, devo pesare un terzo della mia altezza, cioè 55 chili». Qui non si tratta di un limite, come nel caso della soglia elettorale, ma di un rapporto che fissa un criterio in funzione di un obiettivo.
Il senso del rapporto (che è poi una frazione, in aritmetica) e la sua definizione devono essere chiari. Si vede a occhio che, se il peso è 1/3 dell’altezza, si “sta meglio”. E tuttavia, in questi casi, il linguaggio quotidiano non usa mai la parola “soglia” e qui è l’origine della difficoltà di comprensione del criterio di Maastricht. Almeno per i non addetti ai lavori. Già a buon senso uno penserebbe, alla luce dei suoi bilanci personali, che non si dovrebbe spendere più di quel che s’incassa. Ma, se si accetta l’idea che si può essere in deficit, perché proprio il 3%?In fondo cambiare dello 0,1% o dello 0,2% può fare una bella differenza con cifre tanto grosse.
Eppure una buona soglia stabilita dagli uomini non può essere il 3,1%. Il fatidico 3% non è stabilito dalla teoria economica come il 3,14 in geometria (il rapporto tra diametro e circonferenza di un cerchio). La spiegazione della scelta del 3% è nella mente degli uomini. Noi preferiamo le cifre tonde, semplici, quando dobbiamo porci un obiettivo sacro e inviolabile. Tanto vero che possiamo dire “quasi il 3%”, ma non “quasi il 2,7%”. Il test del “quasi” mostra quali sono i “buoni” sistemi di riferimento, quelli intuitivi, come dei paracarri che segnano i punti cruciali sulla strada dei numeri.
La confusione tra la soglia come limite e la soglia come rapporto segnala storia dell’astronomia e le origini della psicologia sperimentale. Nell’inverno del 1796, nell’osservatorio di Greenwich, Kinnebrook, assistente dell’astronomo reale, registra il passaggio degli astri in cielo. Un compito cruciale: quelle osservazioni servono per tracciare le rotte marittime e l’impero dipende da tali rotte. L’astronomo reale, Lord Maskelyne, s’accorge che le rilevazioni dell’assistente divergono di “quasi un secondo” dalle sue. “Quasi un secondo”, come dice lui, è troppo (in realtà erano 0,8 secondi). Kinnebrook è licenziato e, poco dopo, muore. Ma nel 1822 l’astronomo Bessel raccoglie i dati di molti osservatori tedeschi e li confronta. Scopre che la soglia di errore è un rapporto che varia in funzione delle condizioni di osservazione (luminosità del cielo, per esempio) e delle capacità del misuratore (doti, addestramento). Insomma, anche in questo caso non c’era un limite fisso, invalicabile, che giustificasse la punizione di Kinnebrook, come quella dell’Italia se supera il 3%. Si trattava di un rapporto variabile, in funzione delle circostanze.
Purtroppo il primo modo di pensare era intuitivo, anche se sbagliato. Il secondo era corretto, ma più complicato da capire.

La Repubblica 20.02.14