attualità, cultura, memoria

"Pasolini e canzoni, lo stile Borgna", di Paolo Franchi

Con Gianni Borgna non se ne va soltanto una personalità per tanti aspetti irripetibile e impossibile da catalogare sulla scorta delle categorie che attualmente vanno per la maggiore. Se ne va una stagione della sinistra italiana. Un tempo in cui l’idea (e la pratica) di un rapporto stretto non solo tra politica e cultura, ma tra politica, cultura e amministrazione era, almeno come ambizione, nell’ordine delle cose. Un’epoca in cui un giovane colto e brillante che voleva vivere appieno il tempo suo e dei suoi coetanei senza mettersi a fare il grillo parlante poteva anche pensare che il lavoro politico a tempo pieno (o, se preferite, la politica come scelta di vita e come mestiere) fosse la forma più alta di attività intellettuale.
Agli inizi degli anni Settanta (e poi forse per tutta la vita, nonostante un’infinità di delusioni) Gianni lo pensò, eccome. A chiamarlo a guidare la gioventù comunista romana fu il futuro sindaco della capitale, il viterbese Luigi Petroselli, all’epoca segretario del Pci a Roma, noto tra i suoi con il nomignolo di Joe Banana. Ne fu ripagato, sia in termini di fedeltà (mai supina) alla linea del partito sia, soprattutto, in termini di apertura politica e culturale (mai corriva) verso quanto di nuovo e (per il Pci) di controverso, a dir poco, andava maturando tra i giovani.
Attorno a Borgna, si saldò un gruppo di giovanotti che avrebbero fatto strada: Walter Veltroni, Goffredo Bettini e Ferdinando (a quei tempi solo Nando) Adornato, naturalmente, ma pure (cito un po’ alla rinfusa) Fabrizio Barca, Giulia Rodano, Lucio Caracciolo, Giorgio Mele, Marco Magnani… Assieme, fecero un bel giornale, «Roma Giovani», dove tra gli altri mosse i primi passi nel mestiere Paolo Lepri. Misero su iniziative sin lì impensabili, come i Festival del Pincio e di Villa Borghese, questa seconda completa di seratona, per un paio di generazioni indimenticabile, con Gino Paoli. E (soprattutto Borgna, Veltroni, Bettini e Adornato) incontrarono Pier Paolo Pasolini.
Fu amore politico, intellettuale e civile a prima vista. Per loro, per quel che rappresentavano o pensava potessero rappresentare, la speranza di un’altra Italia, Pasolini, sin lì vicino ai radicali, si pronunciò pubblicamente, alla vigilia delle elezioni regionali del 1975, per il voto comunista, nonostante fosse un critico severo della politica e della cultura di un partito, il Pci, da cui era stato espulso molti anni prima per la sua omosessualità.
Borgna, convinto fino all’ultimo che nel novembre del 1976 Pasolini fosse caduto vittima di un complotto, gli ha dedicato, con passione intatta, tre delle sue più recenti fatiche. Una bella mostra, P asolini Roma , curata assieme a Jordì Ballò e ad Alain Bergala, che, dopo Barcellona e Parigi, aprirà finalmente i battenti anche nella capitale, il 6 marzo. Un’opera teatrale, Una giovinezza enormemente giovane . E un saggio pubblicato da Vallecchi, Una lunga incomprensione , scritto a quattro mani con Adalberto Baldoni: un intellettuale di quella destra eterodossa verso la quale Borgna, il comunista che nell’89 rifiutava di cambiar nome al suo partito, ma pure l’assessore alla Cultura delle giunte Rutelli e Veltroni che voleva dedicare una strada a Giuseppe Bottai, non ha mai nascosto la sua curiosità.
Poi, naturalmente, c’è il Borgna più noto. L’appassionato di musica leggera e di mode culturali giovanili che, Gramsci alla mano, «sdogana» Sanremo. L’amministratore comunale che nel 1993 raccoglie, quasi dieci anni dopo, in Campidoglio, l’eredità di Renato Nicolini, l’indimenticato «assessore all’Effimero» di Giulio Carlo Argan, di Petroselli e di Ugo Vetere, che però baderà soprattutto alle strutture permanenti, diventando un infaticabile «motore di cultura» (parola di Francesco Rutelli), e un architrave del «modello Roma». Il manager al vertice della Fondazione Musica per Roma, la società di gestione del «suo» Auditorium, che sarà scalzato da Gianni Alemanno senza che Pd e sinistra alzino barricate per difenderlo.
E infine c’è il Borgna che ci mancherà, mi mancherà di più, quello che non ha mai abbandonato la Vespa e i libri, l’ironia garbata e il lessico d’altri tempi, la fede laziale e, nonostante tutto, la passione politica. In una parola, il nostro Profumetto. Lo pensavamo pressoché eterno, come un monumento della sua Roma. Invece non c’è più.