attualità, cultura

"Non cambia l'Italia se non cambia la Rai", di Giovanni Valentini

È come se la televisione italiana avesse deciso che il suo meglio è il suo peggio, è come se il mediocre fosse diventato un valore positivo. (da “Storie e culture della televisione italiana” a cura di Aldo Grasso, Oscar Mondadori, 2013 — pag.24). Rispetto all’emergenza lavoro, all’oppressione del fisco e alla necessità di una nuova legge elettorale, la riforma della Rai non sarà magari una priorità assoluta. Ma è pur vero che — come ha detto recentemente in un’intervista al
Messaggero il vice-presidente della Commissione parlamentare di Vigilanza, Salvatore Margiotta (Pd) — “per cambiare l’Italia, Matteo Renzi dovrà cambiare anche la Rai”. E prima lo farà, meglio sarà per tutti: anche per smentire i sospetti di un “patto segreto” con l’ex premier-tycoon, Silvio Berlusconi, al quale notoriamente la televisione sta a cuore più del bunga-bunga.
La Rai è la pietra angolare dell’intero sistema dell’informazione. E dal suo assetto complessivo dipendono in larga parte la formazione dell’opinione pubblica, l’aggregazione e la raccolta del consenso. Ecco perché, oltre a una normativa più rigorosa sul conflitto d’interessi, occorre preliminarmente riformare l’ente pubblico nella sua “governance” e nella sua struttura organizzativa. Tanto più che — come ricorda al presidente incaricato l’Usigrai, il sindacato interno dei giornalisti — nel 2016 è prevista la scadenza della concessione.
Contro tutti i tentativi più o meno interessati di smantellare la Rai, e al di là delle invettive di Beppe Grillo davanti al teatro Ariston di Sanremo, il servizio pubblico radiotelevisivo va difeso innanzitutto da se stesso. Vale a dire dai suoi vizi, dai suoi difetti e dalle sue croniche inefficienze. Ma proprio per questo è necessario affrancarlo definitivamente dalla sudditanza alla politica e dalla subalternità alla pubblicità. Per passare “dalla Rai dei partiti alla Rai dei cittadini”, più dei comizi in piazza occorrono proposte e leggi in Parlamento.
Le soluzioni non mancano. A cominciare da quella prospettata già negli anni scorsi da un gruppo di lavoro formato da alcuni ex parlamentari, esperti e giornalisti e rilanciata ora dal senatore Margiotta: trasferire il controllo dell’azienda dal ministero dell’Economia, e quindi dal governo, a una Fondazione rappresentativa delle varie categorie sociali e nominare un consiglio d’amministrazione ristretto a cinque componenti, con un amministratore delegato con pieni poteri. A questa figura più manageriale, si potrebbe affiancare eventualmente quella di un direttore editoriale con la responsabilità della programmazione e del coordinamento.
Sta di fatto che il servizio pubblico radiotelevisivo esiste in tutti i Paesi europei. E in genere, dalla Bbc inglese alla Rtve spagnola, viene finanziato prevalentemente dal canone che da noi è il più basso ed evaso d’Europa. Basterebbe fare seriamente la lotta all’evasione, per esempio agganciando il pagamento del canone alla bolletta elettrica o alla tassa sulla casa come in Francia, per risanare già il bilancio dell’azienda. Un vero servizio pubblico può e deve funzionare senza pubblicità, per sottrarsi alla schiavitù dell’audience e preservare il suo ruolo istituzionale.
Ma un’operazione del genere implica evidentemente un recupero di trasparenza e credibilità, sia sul piano della “governance” sia su quello della produzione e dei contenuti, con particolare riferimento al “buco nero” degli appalti esterni. Altrimenti, il canone Rai resterà “la tassa più odiata dagli italiani”. E di conseguenza, occorre anche procedere a una ristrutturazione dell’azienda, in modo da ridurre gli organici, i costi e gli sprechi.
Non c’è motivo per cui la Rai debba avere 14 canali televisivi e la Bbc appena 6: una riduzione del loro numero consentirebbe di utilizzare al meglio le frequenze e di trasmettere tutto in alta definizione, migliorando la qualità contro la concorrenza delle tv private e satellitari. Così come le edizioni dei telegiornali potrebbero essere limitate agli orari canonici delle rispettive reti, per concentrare il flusso dell’informazione quotidiana su Rai News 24 e spostare su questo canale risorse tecniche e professionali, magari valorizzando ulteriormente il sito web.
Alla base, però, resta una questione di linea editoriale e culturale, in sintonia con i compiti e le responsabilità di un servizio pubblico radiotelevisivo che all’insegna del pluralismo deve “informare, intrattenere ed educare”, secondo la formula del fondatore della Bbc. Ed è proprio attraverso un tale rinnovamento che la Rai può contribuire effettivamente a cambiare l’Italia. Cioè a cambiare il senso comune, la coscienza collettiva, il costume civile di un Paese narcotizzato da un ventennio di ipnosi e di omologazione televisiva.

La Repubblica 22.02.14