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"Il Pd nel Pse: fine dell’anomalia italiana", di Paolo Soldini

Sabato il Pd farà il suo ingresso nel Partito socialista europeo. Con il congresso di Roma si aggiungerà un mattone al muro del bipolarismo politico dell’Unione europea. Nelle assise sarà formalizzata la candidatura di Martin Schulz alla presidenza della Commissione Ue.
Anche così l’Italia diventa quel «Paese normale » che in passato non è stato, o non è stato abbastanza. Con l’ingresso del Pd nel Partito socialista europeo, che sarà sancito proprio a Roma sabato prossimo, scompare un’anomalia e la scena politica italiana si allinea a quella dei grandi paesi del continente: una sinistra che si richiama ai valori e all’esperienza della socialdemocrazia (rinnovata quanto è indispensabile, va da sé) contro una destra conservatrice che è andata negli ultimi anni allontanandosi dalla matrice cristiana e sociale e ha perso progressivamente l’ispirazione «popolare» di cui conserva il nome. Un sostanziale bipolarismo che costringe allo schieramento a sinistra o a destra le altre forze, pur per nient’affatto marginali, che esistono sulla scena europea. Dall’estrema sinistra ai Verdi alle destre nazionalisteggianti e antieuropee: quelle che potrebbero essere il frutto avvelenato da raccogliere nelle elezioni di maggio degli errori di governi ed istituzioni di Bruxelles e Francoforte nella strategia contro la crisi. Con l’eccezione, forse, di una componente liberal-democratica (ma non neoliberista in economia) che, sia pure un po’ malconcia, può nutrire ancora la ragionevole speranza di incarnare un terzo polo con cui fare i conti, almeno sulle questioni che riguardano i diritti civili e le libertà.
Non a caso, per fare solo un cenno alle vicende politiche più casarecce, il nuovo presidente del Consiglio qualche tempo fa, da segretario del Pd, fece un riferimento piuttosto esplicito alla necessità che i Democratici aderissero al Pse proprio per «ancorare» lo scenario politico italiano al bipolarismo europeo. Opinione per niente scontata, venendo da un uomo politico nel cui passato il socialismo non c’è mai stato, né italiano né europeo, e che proviene da un’area nella quale le resistenze alla «socialistizzazione» del Pd sono state aperte e forti, e forse lo sono ancora. E va detto che la stessa posizione era stata rappresentata anche da Enrico Letta, che proviene dalle stesse file.
Il congresso di Roma del Pse, insomma, aggiungerà un mattone al muro del bipolarismo politico nell’Unione europea. I suoi protagonisti saranno consapevoli però del fatto che si tratta di uno schema incompiuto e molto lacunoso. Intanto perché in molti paesi l’evoluzione delle politiche nazionali ha portato all’affermazione di forze e movimenti che sfuggono per la tangente alla dialettica destra-sinistra. Il caso del movimento di Grillo in Italia non è l’unico: gli Alternativen anti-euro in Germania, lo stesso partito indipendentista britannico Ukip incarnano forze antisistema che non sono certo di sinistra e che solo per certi versi sono assimilabili alla destra. Ma anche per un altro motivo: il vero nemico del bipolarismo europeo si nasconde ben più in profondità, nella natura stessa dell’assetto istituzionale comunitario e nell’impasse in cui si è arenata, e da tanto tempo, la costruzione europea.
Il congresso di Roma, si sa, nominerà ufficialmente Martin Schulz candidato del Pse per la presidenza della Commissione. Tutte le famiglie politiche hanno fatto o faranno lo stesso. La novità è epocale perché, come ha detto lo stesso Schulz, il presidente attuale è stato votato da qualche centinaio di parlamentari europei, mentre sul prossimo potranno dire la loro qualche centinaia di milioni di elettori. Ma tutti sanno fin d’ora che questa possente espressione di volontà popolare avrà limiti quasi altrettanto possenti in un sistema elettorale che spinge all’accordo tra le grandi forze e, soprattutto, nel fatto che la scelta dell’esecutivo dell’Unione resta saldamente nelle mani del Consiglio, e cioè dei governi. Anche se gli elettori dovessero votare massicciamente a sinistra, o a destra, si ritroverebbero comunque alla fine con una Commissione frutto di equilibri che con la loro volontà c’entrano poco.
Questo deficit democratico, che esiste da sempre ma che queste elezioni rendono particolarmente evidente, impone che le sinistre riprendano l’iniziativa delle riforme e del compimento dell’Europa. Non soltanto i «socialisti e democratici», come si chiameranno «quelli del Pse» con la modifica del logo che accompagnerà l’ingresso del PD, ma anche le sinistre radicali, che hanno marcato una novità con la candidatura di Alexis Tsipras e una piattaforma che propone profonde modifiche dell’Unione nel segno della democrazia, ma si riconosce pienamente nel disegno europeo e che offrono ai socialisti un confronto e una possibile alleanza. Nei dieci punti del Manifesto di Roma, il programma con cui il Pse chiederà i voti per il 22-25 maggio, il legame tra la necessità di modificare profondamente la strategia economica passando dall’austerità agli investimenti e alla promozione del lavoro e l’urgenza di intraprendere le riforme politiche indispensabili alla democrazia della macchina europea viene affermato. Ma è il terreno sul quale, anche nella campagna elettorale, bisognerà fare di più.

L’Unità 24.02.14