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"Kiev e le scelte dell’Europa", di Gianni Riotta

Nel romanzo «La Guardia Bianca», lo scrittore russo Michail Bulgakov ritrae la tragedia della famiglia Turbin a Kiev nel 1918-19, durante la guerra tra l’armata dei conservatori Bianchi, i Rossi bolscevichi, le effimere milizie del nazionalista ucraino Petlyura. I personaggi usano le due lingue come maschere politiche, proclamandosi fedeli a Mosca o Kiev nei giorni alterni dell’assedio.

Oggi l’Ucraina conosce la seconda rivoluzione dopo il 2004 Arancione, ma, malgrado la fuga del presidente Yanukovich, irriso sul web per il grottesco palazzo con i water decorati da mosaici finto bizantini e il ritorno dell’ex eroina Tymoshenko, il quadro è fermo a Bulgakov: da che parte va Kiev, a Ovest con Bruxelles, o a Est, con Mosca? La mappa delle ultime elezioni è nitida, l’Occidente vota unito l’opposizione democratica, Est e Sud, dove si parla russo, stanno con Putin, spaccati a metà.

Le speranze del 2004 Arancione sono perdute, la Tymoshenko discreditata, nessuno nella piazza che ha rovesciato il regime filorusso dell’ex teppista Yanukovich è leader maturo, non l’ex ministro dell’Economia Yatsenyuk, non l’ex pugile Klitschko. La propaganda di Mosca (e i suoi galoppini in Italia) seminano scandalo per i neofascisti nazionalisti di «Settore Destra», ma la debolezza dell’opposizione non bilancia le colpe del regime, lo sfascio economico, la repressione dei dimostranti anche quando la piazza era ancora non violenta. Anche il falco putiniano Alexei Pushkov, presidente della Commissione Esteri del Parlamento russo, ammette «Yanukovich ha fatto una triste fine».

E ora? Non ci sono «buoni» e «cattivi», in Ucraina tra cui scegliere, ma ricordate che Vladimir Putin non smetterà di interferire: se Kiev entra nell’area di influenza europea, o addirittura della Nato, il sogno neoimperiale di Mosca fallisce. Quando ha fatto strappare a Yanukovich, con la promessa di 15 miliardi di euro e un oceano di gas, l’accordo con i troppo cauti diplomatici europei, Putin voleva per sempre legare Kiev a Mosca, emulo della cacciata della Guardia Bianca 1919. Il Cremlino ambisce alla Crimea, che, si dice, Kruscev abbia assegnato agli ucraini durante una sbronza.

L’ex Consigliere per la Sicurezza nazionale americano Brzezinski e l’ex presidente europeo Prodi hanno, in questi giorni, proposto che, per evitare la guerra civile tra filorussi e filo-Ue che il Cremlino non esiterebbe a scatenare come in Georgia, il paese resti libero ma neutrale, modello Finlandia. Putin si impegna a non mestare negli affari interni, Europa e Stati Uniti sostengono l’economia che è allo sfascio, ma senza alleanze militari. Gli stessi oligarchi ucraini, al sicuro nel lusso di Londra, sembrano comprenderlo, se Rinat Akhmetov, considerato dal Financial Times «l’uomo più ricco in Ucraina» e ex alleato di Yanukovich, dichiara «Voglio un’Ucraina forte, indipendente ed unita e sottolineo unita».

La strada della ragionevolezza ha un solo contro: Putin. Per risolvere la crisi occorre che il duro del Cremlino accetti che, come la sua adorata squadra di hockey non è riuscita ad assicurarsi la medaglia d’oro alle Olimpiadi di Sochi, così anche per lui, dopo i successi di Siria e Iran davanti alle incertezze croniche del presidente Obama, sia venuto il giorno della sconfitta. I dimostranti di Piazza Indipendenza sono riusciti dove ormai nessuno sembrava più riuscire, umiliare Vladimir Putin. Perché il piano per un’Ucraina neutrale passi, occorre che Putin lo accetti, riconoscendo di aver perduto. Nella sua storia non ci sono precedenti di questa saggezza, quando le prende, Zar Putin aspetta, si lecca le ferite e riparte.

Una Seconda Guerra Fredda non è nell’interesse di nessuno, mentre la Cina mobilita la flotta nell’Oceano Pacifico, ma non possiamo farci illusioni. L’Ucraina è divisa, fragile e povera, per sottrarla al Cremlino Usa e Ue devono investire in aiuti finanziari veri, mobilitando una diplomazia meno di porcellana di quella che l’ex Kgb Putin ha fugato con rubli e minacce. Se la Russia scegliesse di vendicare lo smacco, Washington, Bruxelles e Berlino devono avere un Piano B, contrastare l’offensiva russa con caparbietà. La cosmopolita città di Leopoli, (Lviv), teatro negli Anni Trenta di una grande scuola filosofica, ha fatto parte in un secolo di quattro nazioni, impero Austro Ungarico, Polonia, Urss e Ucraina: i suoi studenti sono pronti alla secessione, non intendono vivere sotto il tallone russo. Il Cremlino deve sapere che Usa ed Europa sono pronti al negoziato, ma senza tradire i ragazzi europei di Lviv.

Così è bene che agisca anche l’Italia. Il neo ministro degli Esteri Federica Mogherini ha lanciato su twitter un post che il premier Matteo Renzi ha condiviso: «Con il pensiero, e il cuore, a #Kiev. Che tu sia poliziotto o manifestante, non si può morire così, in #Europa». Giusti sentimenti, a patto di ricordare che non siamo nella poesia di Pasolini dopo gli scontri di Valle Giulia, tra poliziotti e studenti nella democratica Italia 1968. I dimostranti andati pacificamente in piazza, i primi a morire, e le squadracce del regime oggi in fuga vergognosa dopo le violenze, non sono uguali, né politicamente, né eticamente. Il governo proponga in Europa, alla vigilia del semestre italiano, per l’Ucraina un ragionevole compromesso senza gradassate con la Russia, ma con un nitido segnale a Putin: l’Ue non tollererà nuove aggressioni a Kiev. Il 2014 non è il 1918 di Bulgakov.

La Stampa 24.02.14