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"Il Parlamento sotto scacco della piazza, la lotta senza fine tra i due poteri di Kiev", di Bernardo Valli

IN Parlamento ci si accapiglia e tormenta per fare un governo che deve piacere alla Piazza, non provocare troppo il Cremlino e attirare aiuti finanziari occidentali. Vasto programma dal quale dipende l’immediato corso della rivoluzione. In preda a dubbi, timori e contrasti i deputati hanno preso tempo. Dovevano decidere ieri, ma si pronunceranno con cinque giorni di ritardo, a fine settimana. Sanno di essere scrutati dagli uomini mascherati con le spranghe di ferro (e col kalaschnikov, secondo i russi) ritti sulle barricate della Majdan. I gruppi radicali, articolati in centurie, non si fidano. Loro hanno fatto da detonatore alla rivoluzione e adesso rappresentano l’ala intransigente. Sono guardiani rigidi e sospettosi. Si sono ben guardati dallo smontare l’accampamento nel cuore della capitale e sono in stato d’allerta nell’attesa che quell’assemblea di opportunisti si pronunci. Non è stata tolta né una tenda né una barricata. Si aspetta il governo che non arriva e di cui già si diffida.
PER la Majdan, la Piazza, quelli della Rada, il Consiglio, così si chiama il Parlamento, sono in gran parte arnesi del vecchio regime che hanno cambiato casacca. Sono passati dal Partito delle regioni di Viktor Yanukovich, il presidente destituito e in fuga, al Partito della Patria di Yiulia Timoshenko, personaggio riscattato da trenta mesi di prigione, quasi un eroe, anche se gli intransigenti della rivoluzione la considerano un “Putin in gonnella”. Non è un’oligarca che ha fatto fortuna nell’oscuro mercato del gas, proveniente dalla Russia? Ieri è arrivata davanti al Parlamento in Mercedes nera, scortata da una manciata di altre Mercedes. Era esausta e suscitava rispetto. Ma questa è una rivoluzione delle classi medie, dei borghesi con pochi o senza soldi, perché il Paese è sull’orlo del fallimento, e sono loro a patirne insieme agli operai disoccupati. Gli oligarchi, come Yiulia Timoshenko, possono riscuotere applausi per la loro condotta politica nei momenti di intenso nazionalismo (efficace rimedio per i frustrati), e tuttavia non godono di una popolarità stabile.
Per la Majdan gli oppositori moderati durante il vecchio regime e presenti in Parlamento non sono troppo affidabili. Ne è la prova il fatto che abbiano approvato l’accordo di giovedì scorso. «Se la sono fatta sotto», dice con un’espressione ancora più cruda un miliziano che conta parecchi amici tra gli ottanta morti della rivoluzione. Si riferisce al documento redatto con la mediazione dei ministri degli esteri europei. Un compromesso ambiguo che lasciava al potere Yanukovich ancora per un anno. È stata la Majdan a bloccare l’accordo e a provocare nella notte stessa il crollo del regime. Poche ore dopo il Parlamento che aveva approvato per anni le leggi di Yanukovich l’ha destituito da presidente e adesso lo vuole far giudicare dalla Corte penale internazionale per delitto di massa. Un’ondata trasformista ha cambiato il Parlamento, che legifera per la rivoluzione. Ad affidargli questo ruolo è stato il vuoto di potere creatosi con la fuga del presidente e dei suoi più stretti collaboratori. La sola istituzione era la Rada.
Una giovane donna, un’economista, chiede con un cartello, davanti all’edificio neoclassico dove sono riuniti i deputati in seduta quasi permanente, la dissoluzione della Rada ed elezioni legislative immediate. Le chiedo perché mai dovrebbe essere giudicato fuori legge un parlamento che sta per nominare il primo potere esecutivo della rivoluzione. La risposta è fulminea: «Non ci rappresenta, è composto di traditori». Dalla piccola folla raccolta su piazza della Costituzione si stacca un uomo d’età ansioso di correggere la sentenza senza appello: «No, non traditori, ma opportunisti, comunque non attendibili». Ci sono di fatto due centri di potere a Kiev: uno sulla Piazza e l’altro in Parlamento. Uno intransigente e l’altro moderato. Non sarà facile metterli in sintonia. Per questo tarda la formazione del nuovo governo, benché non ci sia tempo da perdere. Il Paese ha bisogno di soldi e gli indispensabili aiuti internazionali dipendono dalla credibilità di chi comanda a Kiev. E per ora non c’è un governo.
Come accade sulla Majdan anche al Cremlino aspettano il risultato della Rada. Putin e i suoi vogliono sapere con chi avranno a che fare nei tentativi di salvare il salvabile nel rapporto con l’infedele sorella ucraina. Da come si risolverà la crisi dipenderà il progetto di Unione euroasiatica destinato a recuperare in una struttura più elastica le ex repubbliche dell’Urss. Non solo la rottura del legame con l’Ucraina, venendo a mancare la principale sponda europea, comprometterebbe l’ambiziosa idea di Putin, ma rafforzerebbe la resistenza delle repubbliche asiatiche (come il Kasakistan e l’Uzbekistan) ai tentativi di Mosca di imporre la propria sovranità o stretta influenza. L’esempio di Kiev sarebbe contagioso. Forse lo è già. La posta in gioco è quindi enorme. Da qui l’incertezza dei responsabili russi nell’affrontare la crisi. I loro interventi sono rivelatori. Le minacce economiche intimidatorie e i ripetuti rifiuti di avere a che fare con i “banditi e i fascisti” dell’insurrezione nazionalista, si alternano con propositi più calibrati, con giudizi meno drastici, non distensivi ma non più così definitivi. Almeno per ora non si vogliono rompere irrimediabilmente i ponti. Lo stesso accade nelle province ucraine orientali filo russe dove le prese di posizione contrarie al Parlamento lasciano aperti ampi spiragli. Non tendono chiaramente a una secessione. Si avverte che l’assemblea è chiamata a deliberare per una rivoluzione che diffida dei suoi deputati. Tra i quali ci sono anche dei filo russi, sia pure adesso in trascurabile minoranza, dopo la svolta trasformista. La Crimea è un caso a parte, più che filorussa è russa, e ha una sua autonomia. È una carta da giocare. Mentre non lo sono le altre province ucraine, a Est e a Ovest.
Le rivoluzioni hanno fretta per definizione e per istinto bruciano via via i loro capi. Quella ucraina non si discosta dalle altre, ma ha una singolarità: chi ne deve interpretare le aspirazioni è un’assemblea estranea alla sua pur breve storia. Come probabili primi ministri si parla in queste ore di Arseny Yatseniuk e di Petro Poroshenko. Il primo, Yatseniuk, è un avvocato di 39 anni con una carriera eccezionale: è stato direttore della Banca centrale, ministro degli Esteri, speaker del Parlamento e capo del partito di Yiulia Timoshenko quando nel 2011 lei è stata condannata. Durante l’insurrezione è stato uno dei quattro principali uomini politici ad appoggiarla. Ma ha poi firmato l’accordo che dava respiro a Viktor Yanukovich. Arseny Yatseniuk è tenuto in grande considerazione dagli americani. Il secondo candidato, Poroshenko, è un oligarca, grande produttore di cioccolato. Un miliardario che ha diretto i servizi di sicurezza, è stato ministro degli Esteri e dell’Economia, e che ha appoggiato sia la “rivoluzione arancione” del 2004 sia l’insurrezione del 2013 fin dall’inizio. Appartenendo al club degli oligarchi, moderni feudatari senza monarca, potrebbe operare efficacemente nella rete dei suoi simili, nelle province dell’Est e dell’Ovest, al fine di tenerle unite.

La Repubblica 26.02.14