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"L’errore di Einstein", di Marco Cattaneo

Un universo stazionario, in espansione ma con una densità di materia costante, grazie alla continua formazione di nuova materia nel vuoto cosmico. È una teoria che a metà del Novecento fu sviluppata e ostinatamente difesa da Fred Hoyle, brillante e poco ortodosso astronomo britannico. La elaborò nel 1948 per contrastare il crescente consenso al modello che con disprezzo chiamava del “big bang”, coniando involontariamente una delle espressioni di maggior successo della storia della scienza. Ma un embrione di quell’idea era già contenuto in un breve manoscritto di Albert Einstein risalente probabilmente alla primavera del 1931 e riscoperto di recente da Cormac O’Raifeartaigh, del Waterford Institute of Technology, in Irlanda, e da alcuni suoi colleghi all’Archivio Einstein della Hebrew University di Gerusalemme.
Il padre della relatività accarezzava l’idea di un universo statico fin dal 1917, quando tentò di risolvere un problema che assillava sia la gravità newtoniana che la sua relatività generale introducendo un termine che chiamò «costante cosmologica». Il problema era che, senza quel termine, a lungo andare l’attrazione gravitazionale di stelle e galassie avrebbe fatto collassare l’universo su se stesso. Un’ipotesi alternativa, messa a punto indipendentemente tra il 1922 e il 1927dal cosmologo russo Aleksandr Fridman e dal fisico e presbitero belga Georges Lemaître, prevedeva che, senza nessuna costante cosmologica, l’universo fosse in espansione e in continua evoluzione. Ma quell’idea comportava che lo spazio e il tempo avessero avuto un inizio, e Einstein – al pari di molti suoi autorevoli colleghi – non la digeriva volentieri. Per semplici ragioni filosofiche, era di gran lunga preferibile un universo eterno.
La prima svolta sperimentale, o per meglio dire osservativa, arrivò nel 1929. In quell’anno Edwin Hubble – a partire appunto dall’osservazione delle galassie – formulò la legge che porta il suo nome, secondo la quale le altre galassie si allontanano da noi tanto più velocemente quanto più sono lontane. Dimostrando inequivocabilmente che l’universo è in espansione. E di solito i biografi di Einstein collocano a questo punto la sua “conversione”. Venuto a sapere dei risultati di Hubble, il grande fisico tedesco avrebbe definito la costante cosmologica «il mio più grande errore».
In verità – come dimostrano le sue accese, interminabili discussioni con Niels Bohr sui fondamenti della meccanica quantistica, l’altra grande rivoluzione del Novecento – Einstein non era propriamente un tipo rinunciatario. Prima di abdicare alle sue visioni estetiche e filosofiche delle leggi della natura perseverava fino al parossismo, per darsi vinto soltanto quando trovava prove inoppugnabili del contrario. E il manoscritto rinvenuto da O’Raifeartaigh ne è una notevole testimonianza.
È intitolato semplicemente Zum kosmologischen Problem (Sul problema cosmologico). Ed è passato inosservato fino a oggi perché era stato catalogato come un testo preliminare per un articolo successivo, dal titolo quasi identico. Invece è un estremo tentativo – piuttosto maldestro, in verità – di aggiustare la costante cosmologica al mutato quadro fenomenologico. Ovvero alla legge di Hubble, che aveva incontrato poco tempo prima al California Institute of Technology durante un viaggio di tre mesi negli Stati Uniti. E dove lavorava anche Richard Tolman, che nel 1930 aveva pubblicato un’ipotesi di universo in cui l’espansione cosmica avrebbe potuto derivare dalla continua trasformazione di materia in radiazione.
Einstein cita Tolman proprio all’inizio del manoscritto. Ammettendo che la sua soluzione «non sembra finora essere stata presa in considerazione». Morale, si mette a tavolino e lavora alle equazioni. Ma commette un errore, all’apparenza, che correggerà soltanto più tardi. E non introduce mai nelle sue equazioni un termine che renda davvero conto di quella continua formazione di materia che ipotizza. Formalmente, le sue speculazioni anticipano di quasi vent’anni la teoria dello stato stazionario di Hoyle, ma in realtà Einstein non arriverà mai a pubblicarle. Già nell’aprile del 1931 e poi nel 1932 – scrivono O’Raifeartaigh e colleghi nell’articolo sottoposto per la pubblicazione allo European Physical Journal – pubblicherà due modelli, oggi noti come modelli di Fridman-Einstein e Einstein-de Sitter – che già abbracciano in pieno l’idea di un universo in espansione. Qui la densità della materia diminuisce con l’aumentare del raggio dell’universo, e la costante cosmologica è definitivamente tramontata.
Alla fine, anche l’indomabile riluttanza di Einstein si era piegata al suo amore altrettanto radicato per la semplicità: perché quella materia che si creava di continuo dal nulla gli appariva troppo artificiosa. Da allora tornò a combattere la sua battaglia contro il Dio che gioca ai dadi della meccanica quantistica e a elaborare una teoria unificata che non avrebbe mai visto la luce.
Richiesto, quasi vent’anni più tardi, di un’opinione a proposito della teoria di Hoyle, la liquidò in due parole come una «speculazione romantica», fondata su basi troppo fragili per essere presa sul serio.
Bisogna arrivare al 1964, quando due ricercatori dei Bell Laboratories, Arno Penzias e Robert Wilson, scoprono la radiazione cosmica di fondo, la testimonianza fossile del big bang, per archiviare definitivamente le velleità dei sostenitori dello stato stazionario. La famigerata costante cosmologica inventata da Einstein nel 1917 per mantenere statico l’universo, invece, tornerà in gioco, con un ruolo assai più inquietante, nel XXI secolo. E precisamente quando gli astronomi accertano l’esistenza dell’energia oscura, la forza ignota che accelera l’espansione dell’universo. E che farà terminare il cosmo, secondo i modelli cosmologici più accreditati, in un Big Freeze; un inesorabile, gelido buio. Ma questa è un’altra storia.

La Repubblica 27.02.14