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"Piovono pietre. Il linciaggio verbale contro le donne", di Maria Serena Sapegno

Le parole sono importanti. Importante è l’uso che se ne fa, soprattutto quando si ricopre un incarico istituzionale, quando si scrive su un giornale, ma anche quando si lancia un messaggio su un social network. Una riflessione sul potere del linguaggio e chi lo detiene. “Le parole sono pietre” scriveva Carlo Levi. O non è più così nel mondo dell’immagine? Siamo state costrette, in questi giorni concitati della nostra vita pubblica, a dover occuparci degli insulti a sfondo sessuale rivolti alle donne della politica. Sui giornali e nei blog si è osservato, anche da voci di donne, come non si debba perder tempo a reagire agli insulti, ponendosi così in atteggiamento vittimistico, e si dia mano invece alle cose importanti.

Vale la pena di soffermarci sul senso profondo di tale dibattito. Chi si dichiara insofferente alle proteste per gli insulti usa talora argomenti legati al savoir vivre salottiero, secondo i quali bisognerebbe avere più senso dell’humour, farsi una risata ed evitare atteggiamenti moralistici o da “suffragette”. Altri adoperano motivazioni più meditate per cui, poggiando il linguaggio su condizioni oggettive e perfino su rapporti di potere che sono precisamente il nocciolo duro che va cambiato, non si possa appunto perdere tempo. E certo non ispirarsi all’ “ipocrisia” del politically correct….

Vorrei sostenere che le parole non sono pietre, sono molto di più. Sono i mattoni con i quali edifichiamo il nostro pensiero, lavorati nel tempo dalla nostra cultura e poi assemblati, più o meno passivamente secondo gli stili e le mode correnti, da ciascuno/a di noi. Senza parole non si produce pensiero ma per converso il nostro pensiero è costretto entro gli argini delle nostre competenze linguistiche, delle letture che abbiamo fatto, dei discorsi che abbiamo sentito, delle esperienze che siamo stati in grado di tradurre in parole. Il linguaggio costituisce il perimetro del pensabile.

È sicuramente vero che il linguaggio riflette e rappresenta i rapporti di potere esistenti e perciò è sempre stato terreno di conflitto e di negoziazione: come aveva ben visto Gramsci, quando si discute di lingua si sta sempre discutendo di classe dirigente e di egemonia. Ed è proprio per questo che le donne considerano tale terreno di importanza strategica.

Ma il linguaggio è anche il sistema di codificazione dell’universo simbolico, lo spazio nel quale si stabiliscono connessioni e gerarchie che affondano nell’inconscio, lo snodo tra emozioni, sentimenti e loro elaborazione, lo strumento principale per la costruzione della soggettività e della relazione. Davvero difficile sopravvalutarne l’importanza e la delicatezza.

Per tornare alle vicende dei nostri giorni, quindi, quegli insulti a sfondo sessuale, nel cuore stesso delle istituzioni, vogliono ribadire l’ordine simbolico patriarcale che le donne stanno mettendo in discussione. Dicono semplicemente “voi potete solo essere corpo e esclusivamente in quanto corpo servile siete ammesse nelle istituzioni. Non vi fate illusioni e state al posto vostro”. Per questo non vanno sottovalutati, non sono ‘solo parole’, toccano chiavi profonde e lasciano il segno.

Nella attuale crisi di rappresentanza delle istituzioni il linguaggio gioca un ruolo decisivo: la lontananza e l’incomprensibilità dei riti della democrazia sono state messe sotto accusa anche perché le istituzioni non riescono a trovare linguaggi che rispondano a nuovi bisogni di comunicazione e sembrano indugiare in gerghi autoreferenziali.

A tali problemi sembrano rispondere le semplificazioni populistiche, le barzellette del capo e, da ultimo, le dichiarazioni apodittiche e distruttive dei cinquestelle che si presentano come il “nuovo” con un linguaggio violento e sessista.

Per non entrare nelle istituzioni lasciando fuori la propria differenza, le donne hanno cercato di incidere sul linguaggio e rifiutato la cancellazione dentro un presunto neutro istituzionale, usando ad esempio ‘la ministra e la magistrata”, ma con poco successo. Sono riuscite invece ad imporre il termine “femminicidio” e con esso a rendere consapevole la comunità nazionale di un nodo fondamentale: la violenza di genere da fatto esclusivamente privato è divenuta pensabile, un problema di tutti.

L’idea che le istituzioni si debbano aprire al linguaggio della quotidianità per essere più vicine si dimostra povera e inefficace. C’è bisogno piuttosto del linguaggio della vita e della sua complessità, che le donne hanno elaborato tenendo insieme le diverse facce della comunità, il linguaggio che può consentirci di ‘pensare la differenza’ in tutte le sue pieghe e la sua ricchezza, che va opposto alla ripetuta negazione della loro piena cittadinanza, perché a tre anni dalle grandi piazze del 13 febbraio si possa cominciare a fare di questo un paese per donne.

da www.ingenere.it