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"Perché la Rete non è la piazza", di Massimo Luciani

La rete è una grande risorsa democratica: attiva e stimola la partecipazione, consente il dialogo tra persone molto lontane, semplifica le procedure di discussione. Ma siamo sicuri che la piazza virtuale si possa sostituire alla piazza reale?

Davvero agorá fisica e agorá telematica sono la stessa cosa? Davvero l’ateniese del quinto secolo avanti Cristo e il cittadino di una democrazia pluralistica contemporanea si possono paragonare? Non credo.

Le obiezioni all’equiparazione so- no molte. Lasciamo stare quelle tecniche (non tutti, ancora oggi, sanno o possono partecipare ad una discussione in rete; non ci sono garanzie di segretezza delle opinioni espresse o dei voti dati, etc.) e vediamo quelle più sostanziali.

La prima riguarda il tempo. Si dice che la consultazione in rete ha il pregio di essere «in tempo reale». È vero. Ma questo è anche il suo limite, perché, procedendo così, questioni anche delicatissime e complesse possono essere affrontate senza essere sufficientemente studiate e meditate. E basta leggere i commenti a caldo ad alcune notizie di cronaca (anche politica) per capire quanto spesso siano imprudenti e quanto sia probabile che la prima impressione cambi se solo si riflette meglio.

Nella piazza elettronica, poi, le cose non possono funzionare come nelle assemblee, perché non è materialmente possibile garantire a ciascuno dei partecipanti la facoltà di intervento e di emendamento delle scelte o anche solo del quesito pro- posto. È lo stesso numero, potenzialmente sterminato, dei partecipanti che lo impedisce: posso certo dire quel che penso, ma non è affatto detto che quel che dico sia ascoltato, tra le migliaia o i milioni di voci che pretendono riconoscimento e attenzione tanto quanto la mia.

Fatalmente, c’è qualcuno che propone quesiti e qualcuno che risponde. E il rapporto fra i primi e i secondi non è paritario. Non lo è perché ogni formulazione di un quesito è deformante proprio perché è formulata (lo ha detto qualche anno fa un attento studioso francese). Non lo è perché la risposta ad un quesito dipende dal momento in cui il quesito è posto e dalla forma in cui viene presentato. E non lo è perché le decisioni o le opinioni manifestate attraverso i mezzi di comunicazione interattiva devono pur sempre essere interpretate e attuate, e chi le interpreta e le attua è sempre chi ha posto il quesito.

La piazza virtuale, in realtà, non sposta minimamente la sostanza dei problemi delle democrazie complesse, nelle quali il rapporto fra le élites politiche e i cittadini è sbilanciato a favore delle prime. E, come aveva compreso bene uno dei maggiori teorici della dottrina delle élites, Gaetano Mosca, il solo fatto che la decisione presupponga un’organizzazione consente che le minoranze strutturate e politicamente professionalizzate esercitino egemonia sulla maggioranza dei cittadini. Quella piazza, dunque, non è il luogo di una rinnovata democrazia diretta paragonabile a quella sulla quale confrontavano le loro virtù politiche i cittadini ateniesi. In un’assemblea la discussione delle questioni è generale e diretta, men- tre in rete è particolare e indiretta. E le dinamiche interpersonali che si sviluppano in un caso e nell’altro sono profondamente diverse, anche perché è assai probabile che la rete solleciti l’adesione ad un modello partecipativo “individualistico” e non “di gruppo”, generando più l’illusione che la realtà dell’inserimento in una vera comunità di loquenti.

La democrazia in senso proprio, la democrazia diretta, non può essere artificialmente riprodotta con mezzi tecnologici e la complessità delle democrazie contemporanee impone la valorizzazione della tecnica della rappresentanza politica. Sbaglierebbero, però, i soggetti della rappresentanza se non cogliessero quelle potenzialità democratiche che, abbiamo visto, la rete possiede. Se non avvertissero che la voglia di stare in rete esprime, comunque, una forte intenzione di partecipazione democratica. Sicché la questione torna ad essere quella di sempre, quella della capacità delle istituzioni di ascoltare la società civile, di non chiudersi nel loro discorso autoreferenziale, di attivare tutti i possibili recettori degli umori dell’opinione pubblica. E questo richiede sapienza politica e rigetto delle tentazioni aristocratiche non meno che di quelle populiste.

L’Unità 28.02.14