attualità, cultura

"Quante mani sulla statuetta", di Natalia Aspesi

Non perché tricolore, ma perché immaginato, voluto, scritto, diretto, da un giovane uomo colto, geniale, di grande capacità visionaria, napoletano e romano, in grado di uscire dal provincialismo di cui è affetto il nostro cinema, di raccontare i nostri guasti e la nostra disperazione, le nostre bellezze e le nostre brutture, con lo sguardo e il talento di chi sa incantare e rendere comprensibile oltre i nostri angusti confini, la confusione che preme sul nostro Paese: anche citando, nel momento dell’Oscar, come suoi “maestri”, Fellini e Scorsese, i Talking Heads e Maradona, le figure colte e popolari che lui condivide col mondo.
Se per 15 anni, dopo ben tre Oscar a Roberto Benigni e al suo
La vita è bella,
il cinema italiano, per decenni il più importante e venerato, non è più nemmeno riuscito a entrare nella rosa dei 5 finalisti (tranne
La bestia nel cuore
di Cristina Comencini, nel 2006), è dipeso spesso dal fatto che la commissione italiana sceglieva per gli Oscar un film per ragioni diverse dal suo valore; troppo mestamente italiano, poco stimolante per gli stranieri, mal distribuito all’estero, o anche davvero di gran lunga inferiore agli altri venuti dall’Iran o dalla Francia o dalla Russia.
Di questo Oscar molto sorrentiniano, si sta impossessando tutta l’Italia, come fosse una benedizione, arrivata a promuovere e incoraggiare l’ancora nebuloso cambiamento in atto nel Paese: e il premiato, conoscendo l’abitudine italiana di arrogarsi patriotticamente i meriti di altri, con la sua ironica flemma si è detto speranzoso che la sua vittoria e il nuovo governo «di cui non sappiamo ancora nulla della forza e del valore, marcino insieme: noi stiamo marciando bene, vediamo come marciano loro». Una specie di fraterno e dubbioso avvertimento, cui è ovviamente seguito una pioggia benedicente di twitter governativi, quelli del premier Renzi all’alba, inneggianti «all’iniezione di fiducia» che l’Oscar potrebbe
portare al Paese e magari anche a lui stesso, mentre Franceschini, appena insediato alla scrivania dei Beni culturali, argomento tra i più trascurati del Paese, ha twittato calorose felicitazioni.
La gente del cinema poi, ancora frastornata per un premio cui si era disabituata, si è sentita tutta premiata e riconosciuta, e c’è chi come Roberto Ciccutto, amministratore delegato di Istituto Luce e Cinecittà, ha definito la vittoria della
Grande bellezza
«un punto di non ritorno». Come se da oggi i produttori italiani dovessero diventare più ambiziosi, non affidandosi solo a cose ridanciane di pronto e solo italico incasso. O i finanziatori smettessero di darsela a gambe appena gli propongono del cinema intelligente, e i bravi registi che ci sono e che negli ultimi tempi hanno anche fatto buoni film, avessero il coraggio di pensarla più in grande, per gli spettatori del mondo.
Certo, il cinema in generale non se la passa benissimo, ma per esempio americani e francesi stanno puntando mucchi di denaro su buoni film; da noi manca questo coraggio, si stanno a contare gli euro soppesandone il rendimento, e anche
La Grande Bellezzacon
tutta la sua grandiosità e profondità, è costato tanto meno di qualsiasi filmetto americano a chi l’ha finanziato, cioè Medusa, cioè Berlusconi. Ma bisognerebbe anche che la gente tornasse ad andare nelle sale cinematografiche anche per evitare la barba dei talkshow e la soap della fiction. Poi, certo, passata la fase di orgoglio tricolore, dell’Oscar a Sorrentino, italiano però per conto suo e non di tutti, chi è impegnato politicamente, in pratica contro tutto e tutti, potrebbe finalmente accettare il fatto, per molti impossibile, che la cultura paga, e che siamo all’ennesimo fallimento se a Hollywood un nostro grande regista della nuova generazione al potere, vince un riconoscimento internazionale, e poi a Pompei crolla un’altra meraviglia; e per forza poi l’informazione straniera continua a considerarci con desolata sufficienza.

La Repubblica 04.03.14

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La bellezza dell’Oscar.Sorrentino: “Ripagato di 15 anni di fatiche ma ora provo a ripartire da zero”, di CURZIO MALTESE

SI FA in fretta una tazza di caffè Kimbo portato da casa e corre con il figlio Carlo, il produttore Nicola Giuliano e un amico di Napoli al bar italiano di Rodeo Drive, dove trasmettono la diretta di Livorno-Napoli. Impreca all’autorete del portiere Reina, sotto lo sguardo interrogativo degli avventori, e commenta alla fine con Nicola: «Speriamo che stasera vada meglio». Tanto per non dimenticare che anche il cinema è un gioco, uno dei più belli inventati dagli uomini, magari. È lo stesso Sorrentino che quando all’Academy annunciano la vittoria del suo film, assiste con calma olimpica all’assalto tifoso di mezza Hollywood che lo adora, Leonardo DiCaprio che davanti a lui stringe i pugni urlando «Italian movie! Italian movie!», Martin Scorsese che sbuca da dietro e lo abbraccia, Spike Lee che arriva da sotto e gli salta al collo e grida «Italy! Rome! Napoli! Paolo!», mentre più in là Cate Blanchett fa un mezzo inchino a Toni Servillo. Poi con passo timido sale sul palco ed è l’unico fra i cento nominati a non aver in tasca o in memoria il discorso scritto, perché è napoletano tendenza Eduardo, così che gli esce dal cuore pure il grazie ai Talking Heads e a Maradona. «Mannaggia, nell’emozione mi sono pure dimenticato di ricordare i due amici cui è dedicato il film, Maurizio Ricci, mio compagno d’infanzia, e Peppe D’Avanzo».
Un Oscar non cambia la vita, la stravolge. Alle nove del mattino dopo, nella casa dell’amico Thomas a Muholland Drive dove la famiglia Sorrentino aveva già festeggiato il Golden Globe, con la tazzina di caffè in mano e l’Oscar che ci guarda dalla mensola della cucina, gli domando se capiterà anche a lui. «E chi può sapere? Io ancora non mi rendo conto. Cerco di non farmela stravolgere. No, non penso di venire a lavorare qui. Non ne ho l’ambizione, o forse il coraggio, come l’ha avuto Muccino. Questo premio mi ripaga di quindici anni di fatica, di lavoro duro, ma ora provo a ripartire da zero. Non penso di dover fare subito un filmone. Voglio al contrario ricominciare con un film piccolo, intimo. L’ho già scritto. È una storia di amicizia fra due vecchi. Le riprese inizieranno a maggio, Michael Caine protagonista».
Per ora, la gloria di Hollywood, la pioggia di premi nel mondo, non l’ha cambiato. È come l’ho conosciuto quindici anni fa, al principio dell’avventura, a Napoli, primavera del ’99, curiosamente di ritorno in Italia dagli Oscar di Benigni. Grazie alla moglie Daniela D’Antonio, collega di
Repubblica, che nella notte ha incantato in mondovisione con un sorriso da star e un rosso Armani «terrific». Era allora un giovane di una timidezza d’altri tempi, squarciata da lampi di humour, grande ascoltatore, come capita a quelli molto intelligenti, interessato alla mia amicizia con Agostino Di Bartolomei, leggendario capitano della Roma di Liedholm. Aveva appena finito di scrivere la sceneggiatura del primo film L’uomo in più, che si chiude intorno al suicidio di un ex calciatore in mezzo a un campo di pallone deserto, come finì per il grande Ago. L’aveva capito meglio di chi l’aveva conosciuto. Le sceneggiature, anche quelle destinate a diventare buoni film, sono spesso avvincenti come un rapporto di polizia. La sua era scritta come un romanzo. «È una cosa che ho imparato, anzi diciamola tutta, ho copiato da Antonio Capuano, col quale avevo appena collaborato. Molti registi scrivono per poter poi girare. Io quasi giro film per poter prima scrivere. È il momento più bello. Forse perché non sono tanto capace di condividere le emozioni, sono più a mio agio nell’emozionarmi da solo, a commuovermi e a ridere nella scrittura, piuttosto che in mezzo agli altri. A parte questo, allora per me l’idea di trovare qualcuno disposto a investire un miliardo per il film di uno sconosciuto di 28 anni mi pareva un miracolo impossibile. Ma se la sceneggiatura fosse stata bella da leggere, la cosa avrebbe aiutato. Ero in ogni caso pronto ad aspettare anni per girare il primo film». E invece in soli quindici anni è arrivato al red carpet di Hollywood. Può servire a qualche giovane sfiduciato del Sud una storia come questa. «Il cinema a casa era una passione solo mia, come la letteratura. Mio padre lavorava al Banco di Napoli, la mamma casalinga. Una famiglia piccolo borghese dove in casa tenevamo soltanto qualche bestseller e l’ultimo vincitore dello Strega. Giusto mio fratello maggiore Marco ogni tanto portava a casa un VHS di Sergio Leone o David Lynch. Ma quando all’ultimo anno di liceo ho detto a casa che volevo fare lettere all’università, i miei genitori mi hanno guardato come se avessi appena confessato di farmi d’eroina. Non ho retto e ho detto subito che scherzavo, avrei fatto economia e commercio, come poi fu».
Subito dopo la vita gli è cambiata per sempre. A 17 anni, tornando un giorno da scuola, ha trovato la casa esplosa e mamma e papà uccisi dallo scoppio di una bombola. Pen-
sarci sempre, parlarne mai. Ed è questa la storia che sta dietro all’ultima frase detta dal palco dell’Academy, sollevando l’Oscar: «Sasà e Tina, this is for you». «Non è che non voglio parlarne, è che ancora non ci riesco. Per fortuna avevo i miei fratelli, Marco e Daniela. E poi passano gli anni, arriva l’amore, i figli, anche i riconoscimenti al tuo lavoro e tutto aiuta a voltare pagina. Ma a quell’età sembrava che fosse finita lì».
A volte squilla un telefonino al momento giusto. «È il presidente, devo rispondere». Giorgio Napolitano lo invita al Quirinale appena torna a Roma. Matteo Renzi pure «per una chiacchierata a tutto campo», linguaggio pop. «Eravamo rimasti all’Uomo in più?». Sì, la critica italiana l’accolse così così, invece gli americani se ne innamorarono subito, già allora, e il primo film di Sorrentino sbarcò a New York al Tribeca Festival di Robert De Niro. Stessa storia per Le conseguenze dell’amore.
«Tutti i miei film sono stati più amati più qui che in Italia. Tranne quello che avevo pensato per l’America ( This must be the place) e che fu naturalmente un flop. Con Toni Servillo ci dicevamo ieri che è andata bene così alla fine, è stato più bello conquistare l’Oscar con un film italianissimo». Però fa riflettere che il film italianissimo più premiato degli ultimi decenni, osannato dal New York Times alla stampa tedesca o britannica, abbia ricevuto stroncature in un solo paese del mondo, ovviamente l’Italia. «Che vogliamo farci? Siamo un grande paese, ma guardiamo a tutto con troppi pregiudizi. Io degli americani amo questo sguardo ingenuo, senza pregiudizi. Non è vero che amano i luoghi comuni sull’Italia, non l’hanno visto come un film su Roma o sul berlusconismo. Si sono abbandonati alle immagini, alle storie e ai sentimenti, alla pena e all’insensatezza della vita dei personaggi, si sono magari riconosciuti senza rabbia o offesa. Ho fatto molte proiezioni qui e a volte certe signore alla fine mi abbracciavano in lacrime, come avessi fatto Voglia di tenerezza.
Non è un caso che il film sia molto piaciuto qui a Los Angeles, un posto che pullula di party, feste, incontri che sembrano promettere chissà quali futuri radiosi e invece evaporano nello spazio di una notte. In Italia siamo dietrologi, si studiano le intenzioni che magari non ci sono».
Nel film non c’è alcun moralismo, nessuna condanna, semmai uno sguardo pietoso sulla mediocrità di certe vite, forse di tutte. Eppure deve aver toccato nervi scoperti per evocare reazioni d’insulto o dileggio. «È un film che emoziona e provoca anche disagio, qualcosa che un certo moralismo italiano non tollera. Poiché ormai sono condannato ogni giorno a un imbarazzante e improponibile paragone con Fellini, mi arrendo e cito Calvino su La dolce vita: il film di cui c’illudevamo di essere spettatori era in realtà la nostra vita». In compenso è arrivato l’entusiasmo non soltanto della critica mondiale, ma di tutti i registi che Sorrentino (e non solo) ama di più: Polanski, Scorsese, Allen, Cuaròn, i fratelli Coen. «Mi ha colpito quanto siano tutti attenti al cinema italiano. Non è vero che sono rimasti a De Sica e Fellini. Molti mi hanno citato Garrone, Guadagnino. Scorsese ha voluto a tutti i costi che gli mandassi la ripresa di Sabato, domenica e lunedì di Toni e io gli ho chiesto: ma come l’hai saputo? Sono informatissimi su quanto accade in Italia, in Europa. E del resto la forza del cinema americano più bello di questi decenni, quello degli italo americani, da Coppola a Scorsese, nasce proprio da quando muoversi fra vecchio e nuovo mondo, prendere il meglio del cinema europeo ai ritmi narrativi americani».
E comunque eccolo qui con la statuetta, nonostante l’eterno odio fra italiani, i governi che «con la cultura non si mangia». Il nostro ha investito 120 mila euro nella promozione di La grande bellezza a Hollywood. Il piccolo Belgio, due milioni. Comunque il pezzo d’Italia che ha accompagnato l’avventura di Paolo apre il cuore. Grandi attori come Herlitzka, Popolizio, Verdone e Ferilli e altri pronti a mettersi in gioco in ruoli inediti. Il grande fotografo Luca Bigazzi che nella notte degli Oscar è finito in piccionaia, con la sua aria da professore di Stanford, urlando come un matto. Lo scrittore Umberto Contarello, che nella tensione ha agguantato per dieci minuti la mano dello sconosciuto vicino, un venditore d’auto dell’Oklahoma grande due metri e due quintali. Il musicista Lele Marchitelli che all’annuncio, nella casa del console a Los Angeles, è scattato come all’ultimo rigore di Italia-Francia, insieme ai figli di Paolo e Daniela, Anna e Carlo, ai tanti amici, collaboratori, belle persone che hanno vinto con lui. E mentre scorrono i titoli di coda, arriva il messaggio più bello per Paolo. La chiamata e l’invito di DAM, Diego Armando Maradona, che lo ringrazia commosso. Qui tocca lasciarlo solo col mito e lo saluto, con un ultimo sguardo allo zio Oscar sulla mensola. Erano quindici anni che non lo guardavo da vicino, dal tavolino del terrazzo di Nicoletta e Roberto su Sunset Boulevard. Corrono troppo gli anni, ma ancora la vita è bella, una grande bellezza.

La Repubblica 04.03.14