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"Condannati a cambiare", di Francesco Manacorda

Che cosa succederà se oggi – come pare probabile – arriverà l’annuncio che Bruxelles è pronta a mettere sotto osservazione l’Italia per le riforme che latitano? L’eterno dibattito su quello che andrebbe fatto e non si riesce mai a fare per riaccendere la crescita e liberare le forze del Paese uscirà forse da una dimensione finora compresa tra l’accademia e i dibattiti politici da talk show per entrare nella concretezza, e nei vincoli, delle procedure europee. È uno scenario realistico, come racconta all’interno del giornale Marco Zatterin. Fino alla scorsa notte, infatti, l’Italia era in fondo alla lista delle riforme attuate, assieme a due partner come la Slovenia e la Croazia, fra i «bocciati» dalla Commissione europea. E oggi, a meno di ribaltoni dell’ultimo minuto, potrebbe vedere sancita la sua grave insufficienza su questo fronte con tutto quello che ne consegue: un periodo da «sorvegliata speciale», il monitoraggio della Commissione sulle azioni intraprese per rispettare le sue richieste, fino all’ipotesi estrema di vedere l’Italia sottoposta a una procedura d’infrazione simile a quella per deficit eccessivo, dalla quale per inciso è uscita appena lo scorso maggio.

Condannati alle riforme, insomma. Se accadrà non è detto che sia necessariamente un male. Per Matteo Renzi l’esistenza di un «vincolo esterno» europeo potrebbe perfino trasformarsi in un mezzo per accelerare ancora di più quella spinta riformatrice che finora ha ampiamente evocato. Per la Commissione e per i partner comunitari, però, non è certo la riforma elettorale che il premier si prepara ad incassare quella che può rendere competitiva la nostra economia. La lista dei compiti a casa che Bruxelles ci darà è più lunga e approfondita e forse più scontata, visto che se ne parla da anni senza risultati apprezzabili: un sistema di ammortizzatori sociali che privilegi la protezione del lavoratore rispetto a quella del posto di lavoro, misure mirate contro la disoccupazione giovanile, un carico fiscale che non penalizzi il lavoro dipendente e l’attività d’impresa, un contesto economico che attiri gli investimenti stranieri, maggiore competizione nelle professioni e nei servizi… L’elenco potrebbe continuare, guardando anche a cosa ci chiedono il Fondo monetario internazionale o quell’Ocse da cui arriva il nuovo ministro dell’Economia. Del resto, come ha detto nei giorni scorsi il presidente della Bce Mario Draghi, «il problema non è cosa fare, ma farlo»; non ci sono insomma formule magiche da scoprire, ma serve la volontà di applicare ricette già conosciute.

Se un problema esiste, nella condanna alle riforme per mano europea, è però quello che finora si è evidenziato nel campo della finanza pubblica. L’ortodossia comunitaria ha visto l’austerità di bilancio come condizione imprescindibile, anche a costo di mancare azioni di ripresa nelle economie del Sud Europa. Allo stesso modo un’agenda riformatrice dettata da Bruxelles rischia di puntare molto sulla competitività e di non prendere in considerazione azioni straordinarie di cui pure l’Italia ha gran bisogno come il pagamento dei debiti della pubblica amministrazione. È un rischio che nei limiti del possibile andrà evitato.

La Stampa 05.03.14