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"Il cartello dei sessisti", di Chiara Saraceno

Non è passata l’alternanza uomo-donna nelle liste elettorali. La curiosa neutralità del governo e del decisionista Renzi su questo punto e il voto segreto hanno lasciato libero il campo al “cartello” che da sempre e trasversalmente difende strenuamente la quota azzurra. Anche parte del Pd, in contrasto con lo statuto e le dichiarazioni ufficiali, si è schierata a difesa del mantenimento dello status quo.
Una situazione che lascia alla discrezione delle segreterie dei partiti se e quante donne mettere in condizione di essere elette di fatto proteggendo lo status quo in cui gli uomini sono maggioranza. Perché solo di questo si tratta. È un errore, infatti, parlare di quote rosa ogni volta che si cerca di scalfire il monopolio maschile, di ridurre le “quote azzurre”, che molti uomini (ed anche qualche donna) continuano a ritenere un naturale diritto divino in tutti i luoghi di potere politico ed economico. Sarebbe molto più corretto parlare di norme antimonopolistiche, che impediscano la formazione di un “cartello” basato sul sesso. Sarebbe più chiaro qual è la posta in gioco e chi sta difendendo checosa.Eforsemoltedonnesmetterebberodisentirsiincolpa,o“panda”,ogni volta che si chiede una correzione. Perché la categoria (auto–) protetta, molto strenuamente, è quella degli uomini, che sono riusciti a far passare come ovvia e meritevole la loro presenza, mentre quella delle donne è sempre frutto o di usurpazione indebita, o di graziosa concessione, non di meccanismi che consentano di correre alla pari.
Renzi ha dichiarato che la “vera parità” c’è quando le donne che fanno lo stesso lavoro degli uomini sono pagate come loro. Ma questa è solo una parte del problema. La questione è che le donne, nel lavoro come in politica partecipano a corse con handicap. Non mi riferisco solo al peso del doppio lavoro, ma proprio al fatto chesonocorsetruccatedachidetienelechiavidiingressoedagliarbitri.Chedi“cartello” si tratti è evidente ovunque, che si tratti di consigli di amministrazione delle società quotate in borsa, di Corte costituzionale, di presidenze e membership nelle Authority, di presidenze dei vari enti pubblici e parapubblici, in generale di nomine nei posti che contano, chiunque sia chi ha il potere di nomina. È ancora più evidentenelcasodellelistebloccate.Perché,esattamentecomeeranelPorcellum, nulla è lasciato al caso e tanto meno alla scelta degli elettori (con in più la beffa delle candidature multiple. L’elezione o meno di un numero congruo di donne non dipende né dalla disponibilità degli elettori a votarle, né dalla disponibilità di un numero adeguato di donne con le competenze e riconoscibilità necessarie. Dipende esclusivamente dalla posizione in cui saranno in lista. Solo perché il Pd alle ultime elezioni ha messo molte donne in posizione alta nelle proprie liste, la percentuale di donne oggi presente in Parlamento è la più alta di sempre. Bene che ne siano diventate consapevoli anche molte parlamentari di altri partiti. Meno, apparentemente, le neo-ministre, stranamente silenti sul punto, come se la cosa non letoccasseenonnesentisseroalcunaresponsabilitàeconlorogranpartedellevecchie e nuove “renziane”. Sosterranno che pur di far passare l’Italicum si possono anche sacrificare le “quote rosa”, senza rendersi conto di difendere così quella azzurra einognicasodiavercontribuitoadulteriormenteindebolirelacredibilitàdel loro partito, sempre più inaffidabile nella difesa dei propri principi, quanto disposto a tutti i compromessi sulle richieste altrui (si veda anche l’accettazione delle candidature multiple). Chi si è opposto all’alternanza uomo-donna in lista non ha fatto altro che difendere la quota maschile, che, nel caso di alcuni partiti (ad esempio la Lega), può arrivare al cento per cento. Certo, ci sono molte altre cose discutibili in questa nuova legge elettorale dal punto di vista della democrazia e della rappresentanza. La democrazia non si risolve con una presenza equilibrata di uomini e donne nelle liste elettorali. Le donne come tali, inoltre, non sono necessariamente meglio degli uomini come tali. Allargare il pool degli eleggibili, tuttavia, potrebbe, chissà, persino far riflettere un po’ meglio sulle caratteristiche necessarie, mettere in moto dinamiche differenti, dentro e fuori i partiti e nella definizione delle priorità nelle cose da fare. Diverse ricerche hanno mostrato che una presenza consistentedidonneneiconsiglidiamministrazionemiglioralaperformancedelle aziende. Perché non dare questa chance anche alla gestione del Paese?

La Repubblica 11.03.14

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“Dal vestito bianco a Lorena Bobbitt”, di FILIPPO CECCARELLI
E DOMANI rimarrà, forse, questa storia del vestito bianco rivelatosi tanto più vistoso, a Montecitorio, quanto più vano e anche un po’ pretenzioso. Magari rimarrà il tweet minatorio dell’on. Giuditta Pini, che ha un nome biblico impegnativo: «Che lo spirito di Lorena Bobbitt accompagni i colleghi che hannobocciato l’emendamento».
PERALTRO, la signora Lorena è ancora viva, qualche anno fa la Cbs l’ha fatta incontrare con il marito da lei evirato — e lui, divenuto misteriosamente porno attore, ha chiesto scusa.
Per dire che sono comunque faccende complicate, e al limite — come sempre in Italia — un po’ buffe. In ogni caso è andata meglio che nove anni fa. Seriale, per non dire eterna, è infatti la vicenda delle quote rosa. C’è sempre qualcuno che le chiede, qualcuno che si oppone, a volte si mettono in cantiere, sono approvate, poi abrogate, quindi per qualche tempo dimenticate, ma poi si ripropongono, insomma la cosa va avanti per conto suo anche sconsolatamente, ma soprattutto senza esiti certi.
Così nell’ottobre del 2005, quando il ministro per le Pari Opportunità — e già il nome concesso a tale amministrazione doveva destare sospetto — insomma
quando Prestigiacomo predispose un primo, timido progetto di riequilibrio di genere, alla Camera vi si eresse contro, sia pure a mezza bocca, un deputato siciliano con baffoni dicendo molto semplicemente: «Le donne non ci devono scassare la minchia».
Allora non era ancora entrato nel lessico politico il termine «sessismo », che miete oggi un uso forse troppo vasto per non essere un pochino ambiguo. Ma poi anche qui la turpe favola continuò nel modo più stralunato. Per cui, dopo aver passato qualche mese a far finta di scusarsi, Pippo Gianni partecipò a sorpresa a una sfilata di moda per onorevoli maschi — esiste un prezioso e tragico «Cafonal » — e una volta in passerella fece pure la mossetta di togliersi la giacca, da provetto indossatore fantozziano — e anche se questo con la guerra dei sessi non c’entra molto, di recente è andato a pranzo con Annarella, la vecchietta di iper-sinistra che si aggira con sempre maggior successo nella città politica.
A Palazzo Madama, in quell’occasione, fu anche peggio. Le senatrici parlavano e dai banchi della maggioranza ricevevano offese, sberleffi, gesti e versacci. Ma di questo, come scrisse il verde Turroni in una lettera al presidente Pera, non rimasero nemmeno le tracce nei resoconti stenografici. Il Cavaliere, che col suo maschilismo giusto allora cominciava ad andare fuori di testa, aveva detto no e la cancellazione doveva essere completa— Prestigiacomo si mortificò, pianse e al colmo della rabbia gettò pure un fascio di fogli sul bancone del governo. E di nuovo è difficile stabilire un nesso immediato che non sia greve e sarcastico con le «quote rosa», tra virgolette, ma di lì a poco esplosero gli scandali sessuali berlusconiani, le attricette promosse in massa, il casting anche ministeriale, il ciarpame senza pudore», le minorenni, il corpo delle donne, la consigliera Minetti, le proteste di massa di «Se non ora quando». E se con il caso Marrazzo la questione parve per un attimo superata, almeno alla regione Lazio, dove si
sfidarono — mai accaduto — due donne (Bonino-Polverini).
E invece no. Si riaccesero nuovamente infiniti dibattiti anche in Parlamento sul ruolo delle donne, dalla farfallina di Belen alla compiuta democrazia di genere. Si registrarono sospette cavalcate nella prateria del politically correct, utile in questo senso rileggersi con il senno di oggi quanto di mirabolante scritto da Matteo Renzi alle pagine 47 e 48 del suo Stil novo
(Rizzoli, 2012): la mancanza di donne ai vertici descritta come una «delle autentiche emergenze del nostro Paese». Si estesero le quote rosa nei cda delle aziende.
Ma intanto i maschi di potere, per quanto sfiniti dalla crisi patriarcale, seguitavano a restare appiccicati alle loro poltrone, prigionieri dei loro immutabili giochi, sempre smaniosi di nuovi
giocattoli, dediti alle loro trame da crudeli bambinoni; mentre le femmine, pure di potere, continuavano a fingere di assecondarli, talora oltrepassandoli in vanità e perfidia, proclamandosi tigri, giaguare, pitonesse, amazzoni.
E con queste designazioni tra il belluino e il mitologico ci si perde negli albori della storia. «Esiste un conflitto fondamentale, probabilmente all’origine dei conflitti sociali fino ai nostri giorni. Un conflitto che non è stato oggetto, in quanto tale, di attenzione da parte degli storici, come se fosse un fenomeno sociale secondario, ed è il conflitto maschile-femminile ». Lo scrive Giorgio Galli, il meno convenzionale, ma anche il più aperto tra gli studiosi di politica. I risultati a cui è giunta la sua ricerca, dal mito delle amazzoni e delle baccanti in qua, appaiono oggi molto più persuasivi di quanto lo fossero venti anni orsono.
Per non farla troppo complicata, la tesi di Galli è che proprio da questo perenne, sommerso e indicibile incontro-scontro tra maschi e femmine si vengono a creare le condizioni non solo per le svolte politiche, ma per la vita stessa degli uomini e delle donne. Con buona pace delle deputate in bianco e magari perfino di Lorena Bobbit.

La repubblica 11.03.14