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"La ricerca scientifica, le marche da bollo e gli scontrini del toner", di Marco Bella

Una collega ne­gli ultimi cinque anni, ha portato all’Università contratti per mezzo milione di euro, completa­mente reinvestiti nel suo labo­ratorio. Ma, dal momento che la sua produttività scientifica misu­rata con i parametri Anvur sem­bra non essere sufficiente, non ha ottenuto l’abilitazione da profes­sore associato, anche se insegna da anni. L’acquisto di un toner ri­chiede una quantità di tempo enorme e ingiu­stificata: serve un preventivo, il Cig, poi la ricerca del prezzo mi­gliore sul MEPA (Mercato Elet­tronico per la Pubblica Ammini­strazione). Non va meglio quando serve una marca da bollo. Di fronte a questi racconti, i colleghi esteri sono incre­duli. Per met­tere i ricercatori in condizione di lavorare meglio si potrebbe almeno cominciare a rimborsare senza troppa burocrazia gli scontrini del toner. La differenza La differenza principale con l’estero può essere sintetizzata con il rispetto per il lavoro di ricerca e il vedere i ricercatori come una risorsa, non come un problema.

Quando un’università estera assu­me un nuovo ricercatore, è con­sapevole di fare un importante investimento: quindi ha tutto l’in­teresse a metterlo in condizioni di lavorare e produrre prima e meglio possibile. Un ateneo del Nord Europa, ad esempio, con­corda un pacchetto start up di almeno 50.000 euro più un paio di dottorandi pagati. Dopo il dottorato in Italia, e cinque anni di ricerca tra The Scripps Research Institute di San Diego (California) e Aahrus University (Danimarca), ho vinto un concorso da ricer­catore universitario alla Sapienza Universi­tà di Roma. Il mio primo giorno di lavoro ho ricevuto le chiavi del laboratorio dove avevo svolto la tesi, con i reagenti chimici degli anni Cinquanta e una strumentazione già obsoleta allora, e una tessera per fare 1.000 fotocopie. Nient’altro. Costavo alla collettività, ma apparentemente non interessava che fossi privo degli strumen­ti per lavorare (e produrre) come all’estero. Finalmente ho ottenuto qualche fondo di ri­cerca dal mio Ateneo e ho sviluppato una reazione organocatalizzata (ovvero senza l’uso di metalli di transizione potenzialmente tos­sici) che produce in modo efficientissimo una struttura molecolare complessa tramite una chimica innovativa; nel 2012, un’industria far­maceutica svizzera ha sviluppato un suo pro­cesso chimico basandosi sulla mia reazione. Lo sviluppo di questa reazione ha permesso di ri­durre l’uso dei solventi da 10.000 litri a 200 per ogni Kg di prodotto finale, limitando l’impie­go di materiali derivati da combustibili fossili. Grazie a questi risultati, ho avviato collabora­zioni con alcune industrie e reperito fondi di ricerca: la chimica verdeche amano le indu­strie è la chimica efficiente.

I lacci della burocrazia.

Il mio gruppo di ricerca collabo­ra con un’industria. Ho appena firmato un contratto da 25.000 euro di cui l’università prende subito il 15% ai fini amministra­tivi. In segreteria, mi è stato detto che l’azienda in questione avreb­be dovuto apporre sul contratto una marca da bollo da 16 euro: mi sono vergognato di chiederla, così sono andato in tabaccheria e l’ho comprata di tasca mia.

L’acquisto di un toner non è più semplice: serve un preventivo, il Cig, poi la ricerca del prezzo mi­gliore sul MEPA (Mercato Elet­tronico per la Pubblica Ammini­strazione). Una procedura che ri­chiede una parte enorme e ingiu­stificata del mio tempo: così, per fare prima, finisce che vado in un negozio e pago direttamente i 40 euro per il toner.

Dal momento che costo alla co­munità circa 50.000 euro lordi l’anno, lo Stato non riesce a ga­rantirmi qualche centinaia di euro (di fondi che reperisco io, tra l’altro) da spendere in modo semplice presentando gli scontri­ni come i deputati.

Una mia collega lavora nel cam­po delle analisi delle acque. Ne­gli ultimi cinque anni, ha portato all’Università contratti per mezzo milione di euro, soldi che – tolta la quota che va all’amministra­zione centrale – ha completa­mente reinvestito nel suo labo­ratorio. Ma, dal momento che la sua produttività scientifica misu­rata con i parametri Anvur sem­bra non essere sufficiente, non ha ottenuto l’abilitazione da profes­sore associato, anche se insegna da anni. È così sfiduciata che non è più così convinta di continuare a cercare contratti per il nostro Ateneo, da cui non riceve alcuna gratifica. Io ho ottenuto l’abilita­zione a professore associato, ma solo pochissimi di noi potranno essere chiamati dal nostro dipar­timento.

Quando racconto la mia situazio­ne, i colleghi esteri sono incre­duli, ma purtroppo questa è la prassi comune in Italia. Per met­tere i ricercatori in condizione di lavorare bene – soprattutto quel­li che hanno meno possibilità di interagire con le industrie – ba­sterebbe qualche piccolo sforzo, come quello di rimborsare senza troppa burocrazia gli scontrini del toner. La differenza principa­le con l’estero può essere sintetiz­zata con il rispetto per il lavoro di ricerca e il vedere (e soprattutto sfruttare) i ricercatori come una risorsa, non come un problema. La politica, con pochi interventi mirati a costo zero, potrebbe mi­gliorare enormemente la produt­tività della ricerca italiana.

Noi continuiamo a tenere duro perché i nostri studenti sono per­sone eccezionali: solo questo ci dà lo stimolo ad andare avanti.

Questo articolo è stato pubblicato originariamente su: Universitas, Numero 131 del febbraio 2014. Si ringrazia la redazione di Universitas per il permesso di riprodurlo.

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