attualità, politica italiana

"Il Senato alla sfida della legge elettorale", di Andrea Manzella

Può darsi che il funambolo caschi al Senato. Ma non è ragionevole fare il tifo perché finisca nel vuoto. Il progetto elettorale avviato alla Camera, sotto la “dettatura” dei giudici costituzionali, ha certo, e ben visibile, bisogno di emendamenti e rammendi. Ma non di un insensato disfare.
Il mestiere di una seconda Camera è appunto di riflessione e di garanzia. Il Senato ha una splendida occasione per dimostrare di poter fare questo suo lavoro, presto e bene, con visione di equilibrio istituzionale. Allontanando ogni tentazione di ostruzionismi aperti o nascosti: proprio perché gli vorticano intorno indefiniti progetti di sua radicale mutazione. Insomma, ogni cosa al tempo e nella corsia giusta. Oggi il Senato si trova in una eccezionale posizione di “terzietà”. Deve, infatti, rivedere e giudicare un progetto elettorale che riguarda solo l’altra Camera e da questa già approvato. Nulla che per ora riguardi direttamente la sua elezione, né tantomeno la sua struttura. Ma è logico che ci sia stata questa separazione nel procedimento legislativo elettorale?
Sì, è logico. E non perché “tanto il Senato non sarà più eletto”(finché gli annunci non diventano diritto, restano annunci). E neppure per quella certa “autonomia” che la consuetudine riserva a ciascuna Camera circa i modi della propria nascita elettorale. Ma perché i giudici costituzionali hanno colto nelle vecchie leggi due vizi catastrofici, però opposti: uno per la Camera, uno per il Senato. Per la Camera, l’incostituzionalità derivava dell’irrazionale sconvolgimento della proporzione tra voto degli elettori e formazione della maggioranza parlamentare. Il vizio era nella rappresentanza distorta.
Per il Senato, invece, l’incostituzionalità derivava dal fatto che la frammentazione delle “aggiunte”, regione per regione, alterava inutilmente il voto degli elettori senza assicurare una maggioranza “nazionale” al Senato. Con la conseguenza, puntualmente realizzatasi sotto gli occhi di tutti, della quasi — impossibilità di “rendere efficace e attuabile l’indirizzo politico del governo e della maggioranza parlamentare, vero motore del sistema” (come, post-sentenza, ha detto il presidente della Corte costituzionale). Il vizio era qui nella ingovernabilità che dal Senato si trasmetteva al sistema. Per un ramo, dunque un guasto di legge; per l’altro, una rottura di sistema. Giusto perciò, procedere per divisione.
Ora il Senato ha quindi due compiti ben precisi. Primo, appurare se la Camera ha davvero riparato i guasti di legge, indicati dalla Corte costituzionale. Secondo, verificare se, mettendo mano alla legge, la Camera non abbia provocato danni collaterali.
Il progetto dovrebbe superare il primo esame. La introduzione di una “soglia minima” elettorale e, in mancanza, di una specie di ballottaggio- referendum: sono meccanismi che rendono ragionevole e legittimo il premio aggiuntivo di seggi parlamentari (prima, dato “alla cieca”, senza risultato di base e senza un ulteriore interpello popolare). La introduzione di “liste corte” in ambiti territoriali limitati assicura la “effettiva conoscibilità” dei candidati (prima negata da “liste lunghe” in dimensioni territoriali fuori della portata degli elettori). Basta così? Sì, basta così — rispetto al dettato e alle puntuali esemplificazioni del giudizio costituzionale — per riportare la legge a legittimità. Poi, naturalmente, sul piano della opportunità, ogni fantasia di legislatore è libera: per altri rimedi e misure. Purché non si contrabbandino come vincoli costituzionali quelle che sarebbero solo eventuali opzioni politiche.
La seconda missione del Senato si annuncia più complicata. Perché, nell’aggiustare la legge, la Camera è caduta in errori evidenti di incostituzionalità. Errori sopraggiunti che la Corte non poteva quindi prevedere né prevenire. Ma che, se non corretti in questa fase parlamentare, rischiano di farle ritornare indietro, di corsa, la legge per un nuovo, demolitorio giudizio. Di corsa: perché per l’“accesso” alla Corte, in questa materia, basta ormai promuovere una semplice azione di accertamento. Di corsa: perché sarà difficile per un magistrato ordinario non accorgersi della rilevanza di quelle cadute.
In realtà i veri errori sono solo tre, ma sono radicali. Perché feriscono nientedimeno che le due norme-chiave del nostro sistema politico- costituzionale: l’art.3 e l’art.49. Il diritto “uguale” di tutti i cittadini di associarsi in partiti. Quali sono questi errori?
Uno. La fissazione della quota dell’8 per cento perché un partito possa entrare in Parlamento crea uno sbarramento fuori di ogni misura mondiale. Non è un ostacolo ai “partitini”: è più semplicemente un ostacolo alla vita democratica e alla sua mobilità, del tutto sconosciuto, nella sua dismisura, all’Occidente. Comparativamente nell’Unione europea e per il suo parlamento, la clausola massima possibile è del 5 per cento. Nessuno aveva mai pensato che un partito con questa percentuale potesse essere definito come “scheggia” o “polvere” del sistema. Averlo previsto è un pubblico peccato costituzionale.
Due. Questo iperbolico innalzamento di quota è reso ancora più irragionevole per la contemporanea trovata del ticket ridotto (al 4,5, per cento) per chi entra, embedded,
in una coalizione. Cioè, se un partito si presenta agli elettori con la propria fisionomia e il suo programma, deve superare una condizione di difficoltà estrema. Se, invece, si cerca un potente alleato — con le contaminazioni, le confusioni e i compromessi che qualsiasi accordo comporta — la sua vita è facilitata. Ognuno vede come le lesioni al diritto dei cittadini di associarsi in partiti che “concorrono” in condizioni di parità alla “politica nazionale” (ancora gli art. 3 e 49) non potrebbero essere più gravi. Con un’aggravante “storica”: perché di coalizioni “giuridicamente” agevolate (e quindi “politicamente” coatte) il sistema italiano è oggi gravemente ammalato.
Tre. La eguaglianza di status politico dei cittadini è colpita ancora dopo il primo turno di ballottaggio (che in realtà, è un referendum di governo). In questa fase non sono possibili nuove alleanze: e ciò viene presentato come una epifania di moralità politica. La proibizione del “soccorso” al presunto vincitore. Ma le regole di buona politica consiglierebbero proprio il contrario. E cioè che partiti presentatisi con la loro identità al primo impatto con l’elettore, potrebbero poi, al momento della scelta del governo, costruire alla luce del sole programmi e alleanze per la gestione della cosa pubblica. Ma quel che più importa è che con la loro esclusione ancora una volta ferisce la parità costituzionale tra cittadini e tra partiti.
Per aiutare il passaggio in questa funambolica strettoia, il Senato dovrà dunque correggere questi errori di fondo. Senza perdersi nel sospetto labirinto delle ipotesi “ben altre”. E anche per far capire a che cosa può servire un Senato.

La Repubblica 18.03.14