attualità, politica italiana

"La riforma del Senato in tre mosse conservando nome e tradizione", di Michele Ainis

Tre settimane fa il governo ha diffuso una bozza di riforma costituzionale. Oggi la bozza uscirà dal bozzolo, sicché vedremo di che colore è la farfalla. Mentre attendiamo il lieto evento, tuttavia, c’è già chi organizza i funerali. E infatti si moltiplicano gli altolà e gli appelli contro tale decisione. L’appello a prescindere, avrebbe detto il buon Totò. Perché fin qui ne conosciamo i contorni, non i dettagli, che in queste faccende sono invece l’essenziale.

Per esempio: quanti sindaci nel nuovo Senato? Erano 108 nella prima idea di Renzi, poi 60, magari domani diventeranno la metà. E ci sarà spazio per correzioni sui poteri del premier, oltre che sul bicameralismo e le Regioni? Infine: il governo scriverà un unico progetto oppure un paio?
Quest’ultima domanda solleva un problema di metodo, e il metodo è a sua volta essenziale. Se accorpo in un testo tutti gli interventi lo rendo più efficace, perché in una Costituzione tout se tient . Ma al primo intoppo perderò le capre insieme ai cavoli. Viceversa se scrivo testi separati ho buone speranze di comprare almeno una capretta. Inoltre non sequestro il voto degli elettori, non li costringo a un prendere o lasciare in blocco, quando verrà l’ora del referendum. Meglio quindi la seconda soluzione: dopotutto, anche nel 2001 il nuovo Titolo V sopraggiunse senza la riforma del Senato.
Ma finora il metodo è ok, per dirla con Obama. Giusto muovere da un accordo fra Renzi e Berlusconi, fra maggioranza e opposizione. Sarebbe stato bene coinvolgere pure i 5 Stelle, ma per sposarsi bisogna essere in due. Giusto mettere online la bozza provvisoria, per temprarla al fuoco della critica. Giusto anteporre la riforma del Senato a quella della legge elettorale, anche perché altrimenti l’Italicum diventa un pateracchio. E sbagliata, sbagliatissima, l’obiezione di chi obietta che questo Parlamento è delegittimato dalla sentenza sul Porcellum, sicché non avrebbe titolo per imbastire le riforme. Siccome la Consulta ha detto il contrario, l’obiezione delegittima pure il delegittimante: troppa furia. E troppo tempo, se dovessimo attendere le elezioni del 2018. Prendiamola come un elisir di lunga vita.
Però qui è in gioco la vita dei governi, non la nostra. L’instabilità deriva da un fattore istituzionale: doppia fiducia, e con maggioranze altalenanti fra Camera e Senato. Senza stabilità non c’è progetto, senza progetto non c’è soluzione ai mali dell’economia. E l’economia viene dissanguata da Regioni onnipotenti e sperperanti, come la Campania: 1,4 milioni di dollari per un appartamento a New York, dove si tengono conferenze in italiano.
Procediamo, dunque. Ma con un triplo ammonimento. Primo: non tradiamo le nostre tradizioni. A partire dal nome della cosa: Senato. Si chiamava così anche quando i senatori li sceglieva il Re, non c’è ragione di correre all’anagrafe. Semmai c’è una ragione storica per rappresentare in quel consesso (finalmente) i municipi.
Secondo: le polemiche sull’elezione indiretta. Ricordiamoci che le competenze dipendono dalla composizione, e viceversa. Se eleggi il Senato a suffragio universale, come fai a negargli il voto di fiducia sui governi?
Terzo: non trasformiamo la seconda Camera in una Camera secondaria. Oltre alle leggi costituzionali, serve un timbro del Senato su quelle elettorali, nonché su ogni materia che trovi i deputati in conflitto d’interessi: immunità, finanziamento alla politica, verifica delle elezioni. Ma intanto sono in conflitto d’interessi i senatori, dovendo decidere sull’autoriforma. Sapremo presto quanto il Senato sia assennato.

Il Corriere della Sera 31.03.14