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"In fuga dall'Università devastata", di Pietro Greco

Sostiene Eurostat, l’ufficio statistico dell’Unione Europea: con il 22,4% di laureati nella fascia di età compresa tra i 30 e i 34 anni, nell’anno 2013 l’Italia risulta ultima assoluta tra i 28 Paesi dell’Unione Europea. Superata, negli ultimi quattro anni, anche dalla Slovacchia (26,9%), dalla Repubblica Ceca (26,7%) e, di poco, dalla Romania (22,8%). Sostiene l’Unione Europea: se vogliamo entrare nella società della conoscenza entro il 2020 dovremo avere una media del 40% di laureati tra i giovani dell’Unione. Oggi ci siamo vicini: siamo al 36,8%. Molti Paesi si sono dati obiettivi nazionali più ambiziosi. In Scandinavia si parla del 50%. L’Irlanda, che già è al 52,6%, ha come traguardo il 60% di laureati. L’Italia, invece, si è data l’obiettivo più basso in assoluto dell’Unione: 27% di laureati tra i giovani di età compresa tra 30 e 34 anni entro il 2020. Una soglia così piccola che, come nota De Nicolao sul sito Roars, tutti gli altri, a eccezione di Bucarest, già oggi hanno centrato. Sostiene la Fondazione Agnelli: con un taglio del 9,4% del personale dipendente, l’università è il settore della pubblica amministrazione che ha subito la maggiore sforbiciata al personale tra il 2007 e il 2012. Seconda solo alla scuola, che ha subito un taglio del 10,9% delle sue «risorse umane». Ma poiché il taglio medio del personale nella pubblica amministrazione è del 5,6% e poiché tutti gli altri settori, diversi da scuola e università, hanno subito un’erosione inferiore al 5,0%, ogni dubbio è sciolto: l’Italia ha deciso di risparmiare prima e soprattutto sulla formazione dei suoi giovani. Sostiene il Cun, il Consiglio universitario nazionale: i tagli non sono finiti. Se continueremo ad applicare le leggi e le norme esistenti nei prossimi anni avremo un calo del 50% dei professori ordinari nelle università e un calo molto simile dei professori associati e dei ricercatori. Il sistema universitario italiano ne uscirà semplicemente devastato. Sostiene l’Anvur, l’Agenzia nazionale per la valutazione dell’università e della ricerca, in un rapporto ripreso di recente da l’Unità: negli ultimi anni c’è stato un calo del 20% delle iscrizioni dei giovani all’università, con una punta del 30% nel Mezzogiorno. Nel nostro Paese è in atto una vera e propria «fuga dall’università». Cinque categorie di dati proposti da cinque istituzioni indipendenti ci dicono la stessa cosa: l’università italiana è in piena emergenza. E non si tratta di un’emergenza grave, ma contingente. Si tratta di un’emergenza strategica. Di una devastazione, appunto. Il Paese sembra aver rinunciato con sistematica determinazione a un futuro fondato sulla conoscenza. Si tratta di una scelta in assoluta controtendenza. I giovani di età compresa tra i 25 e i 34 anni con una laurea in tasca nei Paesi Ocse è del 40%. In alcuni Paesi come il Giappone, il Canada e la Russia sfiorano il 60%. In Corea sfiorano il 65%. Per restare in Europa: in Spagna già oggi i giovani laureati sono il 40,0%, in Francia il 44,0%, in Gran Bretagna il 47,6%, in Svezia il 48,3%. E la tendenza è alla crescita. Tutti sono convinti che il futuro sarà sostenibile solo se la gran parte della popolazione attiva avrà almeno 15/18 anni di studi alle spalle e proseguirà in un long life learning. Tutti puntano sull’università. Tutti tranne l’Italia. La scelta di navigare controtendenza è molto discutibile: nessun analista autorevole al mondo, infatti, sostiene che il futuro appartiene all’ignoranza. Nessun analista autorevole sostiene che è possibile sfuggire al declino economico (e non solo economico) del nostro Paese con meno conoscenza relativa rispetto agli altri. Ma, per quanto discutibile, la scelta sarebbe legittima se fosse avvenuta (e avvenisse tuttora) alla luce del sole. Che fosse, appunto, frutto di un dibattito democratico. Invece la scelta è stata effettuata in sordina. Senza che la domanda – volete un’Italia fuori dalla società della conoscenza e, dunque, destinata a restare ai margini dell’economia della conoscenza? – sia discussa chiaramente in pubblico. Senza che i cittadini italiani possano scegliere di tagliare il doppio nella scuola e sull’università rispetto a ogni altro settore della pubblica amministrazione. Il problema non è settoriale. Ma è, appunto, strategico. Mette in gioco il lavoro dei nostri figli e il ruolo che nei prossimi decenni l’Italia avrà in Europa e nel mondo. È un problema culturale. È un problema economico. È un problema politico. Non lasciamo che a discuterne siano pochi addetti ai lavori. I media devono portarlo in prima pagina. Gli economisti lo devono portare in testa alle loro analisi. La politica deve metterlo in cima alla sua agenda. Perché è, semplicemente, il primo dei problemi politici: riguarda il futuro, anche quello immediato, dei nostri figli. Riguarda il futuro, anche quello im- mediato, del Paese.

L’Unità 30.04.14