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"Servono infrastrutture per il nuovo Stato digitale", Alfonso Gambardella e Guido Tabellini

Che le tecnologie dell’informazione siano la rivoluzione dei nostri tempi non è una novità. Ciò che forse è meno noto è che in questo mese di giugno del 2014 si sta avviando la trasformazione verso uno Stato digitale. Dal 6 giugno è obbligatoria la fatturazione elettronica per i fornitori della Pubblica amministrazione (Pa). Il 13 giugno il decreto di riforma della Pa ha approvato l’identità digitale: dal 2015 ogni cittadino avrà un codice per accedere da casa a tutti i servizi della Pa. Il 30 giugno diventerà obbligatorio il processo civile telematico, che impone di archiviare in forma digitale tutti gli atti del processo. Entro la stessa data le Regioni dovranno presentare i piani per realizzare l’archiviazione e la gestione informatica dei documenti sanitari dei cittadini: avremo tutti una cartella sanitaria elettronica con i nostri dati consultabile ovunque.
Questi cambiamenti nei servizi pubblici e nei rapporti tra Stato e cittadini sono solo l’inizio. L’Agenda Digitale, come l’ha chiamata la Commissione europea, promette impatti ancora più significativi, non solo sullo Stato e i cittadini, ma anche sui mercati, sulle imprese e sulle loro capacità di innovare. Ad esempio, la Commissione stima che il settore legato all’elaborazione dei dati pubblici potrebbe raggiungere nella Ue-27 alcune centinaia di miliardi di euro, o quasi 2% del Pil.
Per realizzare questi obiettivi occorre prendere alcune importanti decisioni di policy. Innanzitutto servono infrastrutture. In un paese moderno le infrastrutture per la crescita sono sempre meno i ponti e le autostrade. L’Italia ha bisogno di investimenti infrastrutturali fatti sia di tecnologie (ad esempio, un grande cloud che raccolga i dati della Pa, con relative tecnologie per la sicurezza) che di servizi (per standardizzare le informazioni).
Bisogna però guardarsi da due errori. Il primo è il localismo. La digitalizzazione è un’opportunità soprattutto se i dati e i sistemi comunicano su scala nazionale.
Anche le imprese hanno più incentivi a investire nell’innovazione di supporto se il mercato è nazionale. Ma oggi molti sistemi sono locali. La cartella sanitaria è consultabile solo nella città, o nello studio medico, in cui è stata creata. Gli investimenti vanno fatti su scala nazionale e coordinati dal governo, se possibile dalla Presidenza del consiglio.
La protezione dei “campioni nazionali” è il secondo errore da evitare. Gli appalti vanno assegnati con bandi aperti a soggetti nazionali ed esteri, e senza sacrificare troppo la qualità per risparmiare sul prezzo. Non è vero che ciò significa abdicare a tecnologie e imprese estere. L’apertura incoraggia consorzi misti.
Inoltre, un’infrastruttura complessa avrà più fornitori, sia nazionali che esteri, e potrà creare un indotto nazionale. Facendo investimenti importanti nel nostro paese, le imprese multinazionali potrebbero localizzare in Italia attività ad alto valore aggiunto, come attività di ricerca. Infine, in questi settori gli investimenti più importanti sono in capitale umano, e poco importa se gli ingegneri e gli informatici che sviluppano le nostre infrastrutture digitali sono dipendenti di Google o di Poste Italiane.
In secondo luogo, occorre facilitare l’accesso ai dati in possesso della Pa e rendere meno restrittiva la legislazione a tutela della privacy. I dati che confluiranno sui portali della Pa possono essere sfruttati per offrire servizi di mercato e per valutare e migliorare i servizi pubblici.
Ad esempio una start-up inglese, Mastodon-C, ha analizzato le prescrizioni di una classe di farmaci, scoprendo differenze nelle prescrizioni del prodotto di marca rispetto al generico non spiegabili da esigenze terapeutiche, e ha fatto risparmiare centinaia di milioni alla sanità britannica. Le rilevazioni elettroniche giornaliere dei consumi energetici delle famiglie possono essere sfruttate per ottimizzarne l’allocazione intertemporale.
In Italia, i dati Invalsi potrebbero essere usati per fornire alle famiglie informazioni sulla qualità delle singole scuole, così come sta avvenendo con il Programma Nazionale Esiti che ha messo in rete vari parametri di qualità di Asl e ospedali. E così via. Perché ciò possa avvenire, tuttavia, l’accesso ai dati deve essere reso più agevole, dal punto di vista sia giuridico sia operativo.
Al contrario di quanto avviene in altri paesi, in Italia la tutela della privacy ha un’impostazione particolarmente restrittiva, che impone di giustificare l’uso dei dati con riferimento a un interesse giuridicamente tutelato e collegato al documento a cui si chiede accesso. Questa impostazione andrebbe invertita: il diritto di accesso alle informazioni in possesso delle istituzioni pubbliche e l’obbligo di trasparenza dovrebbero essere rinforzati, e l’onere della prova andrebbe spostato su chi chiede di restringere l’accesso in nome della sicurezza nazionale o della privacy individuale. Inoltre, il governo dovrebbe impegnarsi a fare il massimo sforzo per facilitare l’accesso ai dati di cui dispone, soprattutto quando riguardano i servizi pubblici (si vedano anche gli articoli in questa pagina).
Il governo sta attuando un’importante riforma della dirigenza pubblica. La digitalizzazione della Pa è una riforma complementare, che potrebbe avere effetti ancora più rivoluzionari sui rapporti tra Stato e cittadino e sull’iniziativa privata.
Per cogliere questa occasione, tuttavia, non basta vincere alcune complesse sfide tecnologiche. Occorre anche abbandonare una tradizione amministrativa e legislativa che vede la diffusione delle informazioni più come una minaccia che come un’opportunità. Tutto ciò richiede un’attenta e lungimirante guida politica da parte del governo.

da Il Sole 24 Ore

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