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"Classifiche delle Università, maneggiare con cura", di Danilo Taino

Non che la reputazione non sia importante nella scelta di un’università o di un master post-laurea: spesso è fondamentale. Il guaio, quando si considerano le classifiche dei «migliori» atenei o corsi, è che però spesso vale la vecchia regola: «Niente è più di successo del successo». Ieri, due autorevoli quotidiani finanziari — il britannico Financial Times e l’italiano Sole-24 Ore — hanno pubblicato classifiche molto diverse tra loro, ma interessanti ed entrambe interne alla tendenza globale a dare i voti alle attività universitarie: una parte consistente dei criteri che adottano per «mettere in fila» i corsi di studio sono influenzati dalla reputazione degli atenei; a loro volta, queste classifiche ne aumentano o ne diminuiscono il prestigio. Sono utili e, se analizzate bene, aiutano a scegliere e a individuare le strade che danno migliori prospettive di carriera. Ma allo stesso tempo creano una élite di istituti che non necessariamente risponde a logiche meritocratiche. È un po’ il difetto della ranking-mania , del desiderio di fare classifiche su tutto piuttosto amato dai dipartimenti di marketing.
Il Financial Times ha condotto il suo studio sui master in Finanza globali, sia a quelli dedicati a chi ha già alcuni anni di esperienza di lavoro sia a quelli indirizzati a chi si è appena laureato. Tra i primi, «vince» la London Business School: era già così l’anno scorso e quello prima. Al secondo posto debutta la Judge Business School di Cambridge e al terzo si è confermata la University of Illinois at Urbana-Champaign. Nei master pre-esperienza di lavoro al primo posto arriva la Hec di Parigi, al secondo la spagnola Esade Business School, al terzo la Edhec, parigina. In questa classifica, la Bocconi è salita dal ventesimo all’ottavo posto.
Comprensibilmente, trattandosi di master post-universitari, nei criteri di valutazione l’Ft dà un alto peso al salario di chi li ha frequentati, alla sua variazione tra prima e dopo il corso, all’andamento della carriera: tra il 50 e il 60% del punteggio finale arriva da lì, da criteri che sono influenzati dalla qualità del programma ma non in maniera diretta e dimostrabile (il prestigio di un master può essere più influente sul salario di ciò che uno vi impara, soprattutto se la variazione della retribuzione viene misurata poco tempo dopo il corso). Altri criteri sono legati alla qualità dell’insegnamento in modo piuttosto lasco: per esempio la presenza femminile pesa per il 9% del giudizio finale dei master pre-esperienza di lavoro. Nel complesso, la classifica del Financial Times disegna un quadro di master di prestigio e di valore per carriera, remunerazione e status sociale. Non necessariamente si tratta di una classifica che stabilisce l’élite meritocratica dei corsi e di chi vi partecipa.
Il Sole-24 Ore , invece, studia i corsi universitari in Italia: fa una divisione tra atenei statali e non statali e, all’interno delle due categorie, produce una classifica didattica e una di ricerca, le quali sommate danno una classifica generale. In questa, al primo posto tra gli statali ci sono Verona e Trento e al terzo il Politecnico di Milano; mentre tra le università private, in testa arriva il San Raffaele di Milano seguito dalla Bocconi e dalla Luiss di Roma a pari punti. Il San Raffaele è in testa, sempre tra i non statali, sia per didattica che per ricerca; tra le università pubbliche, invece, nella didattica il primo posto è condiviso da Trento e Poli Milano e nella ricerca al primo posto c’è Verona. In questa classifica, i criteri di valutazione sono legati alla qualità dell’insegnamento in modo più diretto, come ci si aspetta quando si parla di corsi universitari di base: ad esempio il numero di docenti, la mobilità internazionale degli studenti, la selezione dopo il primo anno, la qualità della produzione scientifica.
La valutazione fatta per università e non per facoltà o corsi, però, rischia di rendere la classifica poco focalizzata e difficili i paragoni. Confrontare Bocconi e Luiss, tra gli atenei non statali, è per esempio sensato: ma farlo tra il San Raffaele e Bra Scienze Gastronomiche è un passo un po’ lungo. Così come paragonare, tra le università statali, i Politecnici e, per dire, L’Orientale di Napoli. Anche qui, reputazione e prestigio finiscono con il prevalere sulla specificità dell’insegnamento.
Le classifiche, insomma, sono strumenti sempre più usati sul mercato, quindi importanti. Ma non è detto che dalle élite che producono esca in ogni caso l’élite della qualità: è bene prenderle per quello che sono.

Il Corriere della Sera, 24 giugno 2014

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È la ricerca a fare la differenza fra gli atenei. Tre parametri sotto esame: articoli, capacità di attrarre risorse esterne, pagelle dei dottorati, di Gianni Trovati

Una geografia accademica spaccata in due, con i risultati più brillanti che si concentrano negli atenei del Centro-Nord e le difficoltà maggiori che si addensano al Sud. L’immagine viene confermata dalle nuove classifiche sulla «qualità universitaria», pubblicate sul Sole 24 Ore di ieri, che dietro le eccellenze di Verona e Trento, o le ottime performance di Bologna, Padova e della Bicocca di Milano vedono affollarsi le università settentrionali, confinando nelle parti basse le strutture del Sud. La situazione generale non cambia se si guarda solo alla condizione della ricerca, in cui si affacciano però importanti eccezioni: Salerno, prima di tutto, che con un punteggio medio di 72 su 100 ottenuto nei tre parametri stacca anche importanti università del Nord e guadagna posizioni nella classifica generale dove occupa il gradino numero 22, ma anche l’Orientale di Napoli, Catanzaro e l’università beneventana del Sannio ottengono risultati importanti.
Per misurare il polso della ricerca italiana, le classifiche pubblicate ieri mettono sotto esame i tre parametri più “pesanti” nella mole di dati resa disponibile dalle ricerche dell’agenzia nazionale di Valutazione (Anvur). In gioco entrano i giudizi ottenuti dai «prodotti di ricerca», cioè dalle monografie, dagli articoli, dai brevetti e dalle altre realizzazioni che i docenti dei vari dipartimenti hanno sottoposto al voto dell’Anvur; il secondo parametro guarda alla capacità degli atenei di attrarre risorse esterne per finanziare i propri progetti, mentre il terzo valuta le “pagelle” assegnate (sempre dall’Anvur) ai dottorati e all’alta formazione. I risultati sono stati pesati in base al numero di aree di studio attive nell’ateneo, per evitare che le dimensioni distorcessero i risultati, e riescono appunto a offrire un quadro che si rivela più articolato rispetto alla classica divisione Nord-Sud.
Più schiacciata verso il basso è la situazione degli atenei meridionali per quel che riguarda la didattica, misurata da parametri che vanno dalla struttura dei docenti alla puntualità degli studenti con gli esami, senza trascurare l’incidenza degli stage e delle esperienze all’estero sui curricula di chi si laurea. Su questo versante, però, ci sono ostacoli strutturali che pesano con incidenza diversa su tutte le regioni meridionali. L’emigrazione studentesca priva queste università di studenti motivati, e non è compensata da alcun flusso in senso inverso, al punto che a Urbino, Trento e Ferrara più del 50% degli immatricolati arriva da regioni diverse da quella sede dell’ateneo, mentre a Catania, Cagliari, Sassari o Palermo la stessa condizione si incontra in meno dell’1% dei casi (un caso a parte è rappresentato dall’Aquila, dove ad attrarre iscritti sono state anche le agevolazioni post-terremoto sulle tasse universitarie).
Nel Mezzogiorno il livello basso dei contributi chiesti agli studenti interviene per provare a frenare l’emorragia di studenti e andare incontro alle esigenze di territori con redditi e capacità di spesa più modeste, ma rischia di innestare un circolo vizioso tra basse pretese economiche e altrettanto bassi servizi offerti. Lo stato del diritto allo studio, che è competenza delle Regioni, completa il quadro e fa mancare le risorse proprio dove sarebbero più necessarie, con il risultato che in tante università della Campania o della Calabria la borsa di studio arriva a meno della metà degli studenti che la dovrebbero avere in base ai parametri di reddito e patrimonio famigliare. Negli ultimi anni il problema si è affacciato anche nelle Regioni settentrionali, al punto che molti atenei (dalla Bicocca fra gli statali a Bocconi e Cattolica fra i non statali, solo per citarne alcuni) hanno deciso di integrare gli stanziamenti per allargare la platea dei beneficiari.
Com’è naturale, inoltre, le classifiche offrono un’indicazione sintetica di una realtà più articolata, che si traduce nei numeri dei «dossier di documentazione» pubblicati sul sito del Sole 24 Ore. Per questa via si scopre, per esempio, che a Salerno l’alta formazione raggiunge il top in matematica e informatica, lo stesso settore dove il Sannio ha risultati brillanti sulla qualità della ricerca. Oppure, per tornare al Nord, che Brescia primeggia nei dottorati di scienze filologiche e dell’antichità, l’Insubria è forte in quelli di scienze sociali e politiche mentre l’alta formazione in ingegneria industriale incontra i giudizi migliori a Firenze. Un viaggio nelle eccellenze che rappresenta anche un viaggio nella trasparenza, altra caratteristica di cui l’università italiana ha forte bisogno.

Il Sole 24 ore 24.06.14

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“Misurare per poter migliorare”, di Daniele Checchi

Nel mondo della scuola, dell’università e della ricerca si combatte in Italia una guerra sotterranea. Tra chi ritiene che i processi formativi possano essere misurati, usando queste misure per rendere conto del lavoro svolto, e chi al contrario pensa che “per natura” la formazione e la trasmissione della conoscenza siano fenomeni così complessi da sfuggire a ogni tentativo di quantificazione. Difficile negare validità a ciascun punto di vista: da un lato è evidente che l’esperienza scolastica o universitaria modificano le prospettive dei giovani nel mercato del lavoro (aspetto quantitativo); dall’altra è altrettanto vero che le stesse esperienze modificano il modo di pensare degli stessi giovani (aspetto qualitativo). La prima dimensione è misurabile con relativa facilità, la seconda è descrivibile in riferimento ai singoli casi, ma è quasi impossibile fornirne una media (basti pensare allo spirito critico o alla creatività: di quanto migliorano questi aspetti in un giovane che frequenti un determinato corso di laurea?). Fino a una quindicina di anni fa il sistema universitario italiano è rimasto immerso nella nebbia. Non si conosceva il numero esatto dei professori universitari, sugli abbandoni universitari si avevano stime approssimative, sull’attività di ricerca non si disponeva di nessuna informazione. Contribuivano a questa situazione diversi fattori: una mancata regolazione della prestazione lavorativa dei professori universitari, che rendeva intangibile (e quindi non misurabile) i suoi contenuti; una concezione burocratica della Pa, centrata sulla soddisfazione dei requisiti di legittimità formale, invece di una concezione manageriale centrata sugli obiettivi; un’assenza di cultura organizzativa che usi i dati per il monitoraggio dei processi. Le cose sono progressivamente cambiate, in alcuni casi addirittura precipitosamente. A partire dai .primi rapporti del Cnvsu (zoo].) abbiamo cominciato a conoscere e a quantificare i problemi dell’università italiana: gli abbandoni durante il percorso universitario, i tempi lunghissimi del completamento delle lauree, l’invecchiamento del corpo docente, l’immissione di personale in ruolo a ondate anomale. Abbiamo dovuto aspettare il Civr (2004) per avere una prima mappa della qualità della produzione scientifica all’interno degli atenei. Nel frattempo il ministero aveva riassorbito in proprio la responsabilità di fornitura dei dati sul funzionamento delle Università autonome, obbligando i singoli atenei a compilare rapporti annuali (per il tramite dei Nuclei di valutazione interni) e più recentemente a riversare periodicamente i propri dati amministrativi. È stato nel contempo avviata l’attività dell’Anvur, cui è stato affidato il compito della valutazione sia dell’attività didattica sia della ricerca negli atenei. E l’Anvur si è immediatamente scontrata con la perdurante assenza di dati. Bastino due esempi: i) non esiste ancora oggi una banca dati completa e affidabile della produzione scientifica dei docenti e ricercatori italiani. Perché? Molti atenei hanno varato archivi della ricerca, ma il controllo della qualità del dato immesso è variabile tra atenei. Molti archivi riversano sull’archivio del Cineca (da cui sono state estratte le tanto discusse mediane), ma il grado di copertura non è universale. I lettori interessati possono approfondire il tema leggendo il primo rapporto di Anvur sull’università italiana; 2) non abbiamo ancora un’anagrafe degli studenti integrata tra scuola e università, che sia in grado di dirci per ogni coorte di nascita quali siano i risultati finali. Perché? Perché un funzionamento adeguato dell’anagrafe si scontra con gli ostacoli frapposti dal rispetto della legislazione sulla privacy, che impedisce l’integrazione dei dati del Miur (lato scuole), delle Regioni (formazione professionale), delle università e dei Centri per l’impiego. Dal punto di vista informatico nulla impedisce che al codice fiscale di ogni bambino si aggancino tutte le informazioni sulla sua carriera scolastica (classi frequentate, voti ottenuti, eventuali bocciature, tipo di secondaria), universitaria (corso di iscrizione, crediti e voti conseguiti) e lavorativa (contratti di lavoro, durata, retribuzione). Sembra di parlare di un mondo futuribile, certamente ancora molto lontano. Ma se oggi tutto questo non è avvenuto, sorge il dubbio che non sia un mondo desiderato o desiderabile da una parte del Paese. Piacerebbe sapere quanti studenti si laureano, quanti trovano lavoro, con che tipo di contratto e con che livello di retribuzione. Piacerebbe sapere quanto e dove pubblicano i docenti e i ricercatori. Piacerebbe sapere se si studia meglio e se si trova lavoro più facilmente dove si fa attività di ricerca più intensamente. Ma queste non sono domande di ricerca per addetti ai lavori. Sono informazioni che l’amministrazione universitaria dovrebbe fornire preventivamente ai cittadini che intendano usufruire dei suoi servizi. Sono informazioni che devono essere fornite in modo intellegibile da tutti, affinchè possano essere fruibili. I dati di queste pagine sono un buon esempio di come si possano fornire informazioni in un formato utilizzabile. Ma già immagino i detrattori che cominceranno a obiettare sull’affidabilità di questo o quel dato, o sulla loro ponderazione. Oppure qualche rettore preoccupato della fuga di studenti a seguito di un dato troppo negativo. Credo che sia ora di smettere di considerare gli studenti e le loro famiglie come incapaci di formarsi opinioni ponderate, al punto di negare la fornitura trasparente dei dati. Certo, si formeranno delle mode, anche infondate. Ma non sono avvenute anche in passato? Negli anni di “Mani pulite” le iscrizioni a Giurisprudenza si impennarono. Quando Berlusconi entrò in politica arrivarono gli anni delle facoltà di Comunicazione. Ma poi le mode rientrano e nel lungo periodo le scelte diventano più informate e più coerenti con le potenzialità e le aspettative degli studenti.

Il Sole 24 Ore 24.06.14