attualità, politica italiana

"La politica si fa in tre" di Michele Ciliberto

La politica, nonostante le apparenze e tante chiacchiere, ha leggi precise, «obiettive», perché fondate su interessi che, prima o dopo, si fanno sentire. È bene che Grillo e Casaleggio se ne siano resi conto, anche se è stato necessario il duro «farmaco» della loro sconfitta elettorale nella quale ha, certamente, inciso il modo duro, violento, con cui si sono mossi, prima del voto.
Di fronte a un linguaggio minaccioso (si pensi all’evocazione di tribunali popolari sulla Rete) molti hanno preferito altre strade ritenute altrettanto innovative, ma più certe, più sicure e comunque lontane dalla violenza per fortuna solo verbale dei due capi del Movimento.
Un indizio che ci fosse una resipiscenza rispetto ad atteggiamenti e a giudizi del passato, era stata la dichiarazione con cui Grillo aveva riconosciuto che il presidente del Consiglio aveva ottenuto, con il 40.8%, una legittimazione di carattere popolare sanando con il voto la ferita che aveva inferto alla democrazia facendo cadere il governo presieduto da Enrico Letta. Posizione, questa, che in effetti non sorprende se si tiene conto che nella ideologia del M5S il rapporto diretto con il «popolo» è il fondamento ultimo e inalienabile del potere, tipico delle ideologie imperniate sul primato della democrazia «diretta».
L’incontro di mercoledì tra il segretario del Pd e una delegazione del Movimento non è stato né accidentale né improvvisato, ma scaturisce da una scelta politica meditata. Il che ne accentua l’interesse, perché, se così è, da esso possono effettivamente scaturire effetti positivi per il Paese e la democrazia. Tenere bloccata una forza ampia e di matrice, certo, anche popolare come il M5S, non giova infatti a nessuno né al Movimento e agli obiettivi che si propone, né al nostro Paese che ha bisogno, per il processo di modernizzazione che si sta avviando, anche del contributo delle forze che questo Movimento rappresenta nella società e nel Parlamento. Ed è positivo che il segretario del Pd abbia compreso l’entità della posta in gioco e lo sforzo fatto da Grillo e Casaleggio per imboccare una strada diversa intervenendo in prima persona. Non è stato, come qualcuno ha detto, un tatticismo di tipo andreottiano. Quella su cui si sta iniziando ad avviare un confronto è la riforma della legge elettorale, cioè la ristrutturazione del nostro sistema politico: un problema aperto da quasi mezzo secolo e che non può essere risolto d’improvviso, con una bacchetta magica. Coinvolgere tutti in questo processo è un gesto di responsabilità politica, specie se e quando si ha la guida del Paese. Proprio per questo, attendersi in tempi brevi una convergenza su posizioni comuni sarebbe insensato: importante era cominciare a discutere estendendo, e questo è un fatto decisamente positivo, il campo degli interlocutori da coinvolgere in una questione di ordine generale che deve essere affrontata, per la sua stessa natura, da tutte le forze disponibili senza alcuna pregiudiziale conventio ad excludendum. Qui siamo sul terreno dei «vincoli» che tengono insieme una comunità, una nazione.
È stato perciò utile che il segretario del Pd e gli esponenti del Pd abbiano messo sul tappeto le differenti opzioni su punti centrali, senza nascondere i punti di dissenso sui problemi dirimenti. Fare diversamente sarebbe stata, non politica, ma propaganda, tanto più dannosa perché fatta di fronte a milioni di persone. Ha fatto bene, ad esempio, il segretario del Pd ad insistere sulla «governabilità» come punto dirimente e qualificante della riforma elettorale: qualunque sia il sistema che si sceglie, occorre passare attraverso questa cruna, sapendo, quando si aprono le urne, chi è il vincitore al quale è affidato il governo del Paese. A meno di non voler cedere alle sirene dei governi delle «larghe intese» che vanno invece consegnati al passato: se si vuole un compiuto sviluppo della nostra democrazia occorre muoversi secondo prospettive alternative, in un sistema tendenzialmente bipolare.
L’ECCEZIONE E NON LA NORMA
Insisto su questo perché si tratta di un punto decisivo sul piano sia politico che culturale, ed anche su quello dell’etica pubblica. I governi, e le politiche, fondati su forze antitetiche possono essere necessari in momenti eccezionali, di particolare debolezza e fragilità del Paese, come quello che stiamo attraversando; ma devono essere l’eccezione, non la norma. Quando vengono assunte come regola, queste politiche generano processi di carattere trasformistico che screditano la democrazia e non giovano al Paese. Per questo è importante che il segretario del Pd abbia ribadito l’ipotesi del doppio turno, ed è da considerare con particolare attenzione la disponibilità o per lo meno la non-chiusura dei rappresentanti del Movimento rispetto ad una opzione di questo genere: se si vuole imboccare la via del cambiamento, questa è la strada maestra. Su tutto si può discutere, a cominciare dalle preferenze, ma sulla questione della governabilità, no. È il Pd, come Lutero, deve dire: qui sto, non mi muovo. Sulla «governabilità» non ci sono margini di trattativa; si può discutere sulle forme, non sulla sostanza.
Sono molti i punti sul tappeto su cui occorre discutere, come è auspicabile che avvenga. Intanto è positivo che il Pd abbia trovato, su questo terreno delicato, altri interlocutori, oltre Forza Italia e Berlusconi: così si comporta una forza che ha a cuore il destino del Paese e della nostra democrazia. La domanda ovviamente è cosa faranno nei prossimi giorni Grillo e Casaleggio: resteranno sul terreno della politica, che hanno rifiutato in modo pervicace per tanti mesi, o sceglieranno nuovamente la strada della propaganda, della invettiva, dell’insulto personale? È difficile prevederlo, ma ci sono alcuni elementi, e interessi, che lasciano immaginare uno scenario nel quale l’opzione politica possa continuare a giocare un ruolo nelle discussioni e nelle decisioni del Movimento: la sconfitta elettorale e le ragioni che l’hanno provocata; l’importanza della legge elettorale e di ciò che essa rappresenta per la ristrutturazione del nostro sistema politico; il fatto che il Movimento 5S è, nel suo campo e con i suoi modi, espressione di una effettiva volontà di cambiamento, che non può essere compressa oltre una determinata soglia.
Ma c’è un punto di ordine generale che occorre tener presente e che è confermato dal travaglio di altre forze politiche: il sistema politico italiano sta entrando in una nuova fase di scomposizione di vecchi assetti e di riaggregrazione intorno a nuove forze e a nuovi leader, che interpretano l’esigenza e l’ansia di cambiamento che sale dal profondo del nostro Paese. Viene da lontano, dagli ultimi decenni del secolo scorso dagli anni Settanta e non è mai stata soddisfatta. Ha attraversato come un fiume carsico tutta la nostra storia recente, compresa quella della cosiddetta Seconda Repubblica. Ora è risalita in superficie in modo violento, risentito, per certi aspetti incontrollabile. Fenomeni come il «nuovo» Pd e lo stesso Movimento di Grillo e Casaleggio sono espressione, in modi alternativi, di questi sommovimenti profondi, che chiedono di essere riconosciuti, valorizzati ed anche governati. È interesse di tutti, anche del Movimento, cercare di farlo, senza aspettare che si aprano cateratte che possono travolgere ogni cosa. C’è un tempo per nascere e un tempo per invecchiare, dice l’Ecclesiaste: parafrasando si può dire che c’è un tempo per la propaganda e un tempo per la politica. L’auspicio è che anche i dirigenti del M5S leggano, ogni tanto, le sacre Scritture.

L’Unità 27.06.14