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"Il maestro Eggers insegna a raccontare", di Elena Stancanelli

Lo scrittore ha avviato un esperimento nelle scuole americane ora esportato in Italia: “Proviamo ad appassionare i giovani alle storie”

«SE mi limitassi a scrivere», dice Dave Eggers, «non mi sentirei a mio agio. Tutto quel tempo da solo, a pensare al modo migliore per esprimere le mie emozioni… Non crede che scrivere romanzi sia, almeno in parte, un esercizio di egoismo?». Lo dice senza alcuna arroganza, come se non volesse offendere nessuno. È il suo modo: gentile, disarmato, attento agli altri. È arrivato a Firenze per il premio Von Rezzori. Il suo ultimo romanzo, Ologramma per un re, era entrato nella cinquina.
Siamo su un pullman, abbiamo appena visitato una piccola scuola di Campi Bisenzio (periferia fiorentina), il Porto delle Storie. Un circolo di scrittura nascosto in un bar, inventato da Leonardo Sacchetti, insieme alla Cooperativa Macramè. Un progetto che si ispira a quello di Dave Eggers, 826 Valencia. Per questo lo scrittore americano si è offerto di andarli a trovare. Per tutta la mattina ha ascoltato i racconti ispirati alle copertine dei suoi libri, scritti e letti dai ragazzini. Ha parlato con loro a lungo, li ha intervistati. Sembrava molto a suo agio, nonostante il caldo infernale. C’è una specie di enorme famiglia di sognatori sparsi per il mondo, tutti quanti hanno preso spunto dal suo lavoro. Gente che pensa che i libri rendano le vite più belle, che non sapere leggere sia uno svantaggio gravissimo ma emendabile, con un po’ di baldanzosa energia. Eggers va in giro per il mondo a coccolarli. Sa tutto anche di Piccoli Maestri, la nostra associazione di scrittori e scrittrici in missione nelle scuole a raccontare i romanzi degli altri.
«Mi piace molto visitare le associazioni il cui lavoro è ispirato al nostro», dice, «mi piace capire in che modo l’insegnamento cambi a seconda dei ragazzi che hai di fronte, delle comunità, delle diverse esigenze. Sono appena stato a Londra, ospite del Ministero delle storie di Nick Hornby. Come da noi a San Francisco, anche lì ci sono ragazzi che faticano con l’inglese, perché non è la loro lingua madre. Ma mentre i nostri sono soprattutto di lingua spagnola — messicani, guatemaltechi salvadoregni — a Londra, in ogni classe c’erano allievi originari di almeno 12 paesi diversi: India, Pakistan, Nigeria… e lavoravano tutti insieme, scrivevano storie a più mani, faticavano partendo da punti diversi, ma con un obiettivo comune. Non saper parlare, scrivere con esattezza la lingua del paese dove vivi, ti fa sentire frustrato, escluso, diverso. Non riesci a interagire con gli altri, a spiegare chi sei. Ti fa sentire disonorato. E questo è molto pericoloso».
Dave Eggers ha esordito nel 2000 con L’opera struggente di un formidabile genio , una commovente autobiografia in forma di romanzo, ha scritto saggi, sceneggiature, ha inventato due riviste letterarie di culto, il MacSweeney’s e The Believer, insieme alla moglie Vendela Vida, è editore, e, nel tempo libero, ha fondato appunto 826 Valencia. Il progetto ha vinto il premio Ted 2008 assegnato alla migliore proposta che potrebbe cambiare il mondo.
«All’inizio avevamo un’idea minuscola: aiutare i ragazzi a fare i compiti a casa. Abbiamo affittato uno spazio vicino alla sede delle riviste: gli scrittori uscivano dalle riunioni e andavano a lavorare coi ragazzi. Il nostro metodo era la dedizione e la convinzione che dovevamo poter offrire ai ragazzi una relazione esclusiva col tutore: uno a uno. Gli insegnanti, nelle scuole pubbliche americane, devono occuparsi di centinaia di allievi ogni giorno. Noi gli avremmo dato quell’attenzione che non potevano ricevere la mattina, li avremmo ascoltati, aspettati fin quando fosse stato necessario. Abbiamo avuto ragione: in poche ore, con un insegnante a disposizione, i ragazzi facevano progressi enormi. Poi piano piano ci siamo allargati, abbiamo aperto altre sedi in America e iniziato a insegnare anche agli insegnanti. È una specie di tutoraggio in entrambe le direzioni. Le scuole sanno di poter contare su di noi, e quando hanno bisogno di aiuto ci chiamano. Insegniamo l’inglese, certo, ma anche tutte le altre materie. I ragazzi devono tornare a casa con tutti i compiti fatti, così da poter stare tranquilli con le famiglie».
Gli chiedo di raccontarmi dei pirati: all’826 Valencia di San Francisco, adiacente allo spazio dove i ragazzi vanno a fare i compiti, c’è un negozio dove si vendono gambe di legno, bauli, uncini, tappi per non sentire il canto delle sirene, sabbia per quando fosse necessario seppellire in fretta un tesoro, il kit per scappare dal ventre della balena…
«Da una parte i pirati servono a far sentire i ragazzi a loro agio. È importante che sentano quel posto come la loro casa, altrimenti non tornano. Da noi c’è un ragazzo che viene ormai da dodici anni, prima come studente adesso come volontario. Molti dei nostri allievi rimangono a insegnare, una volta diplomati. Questo ragazzo, che veniva da una situazione complicata ed era stato vittima di vari episodi di bullismo, era stato eletto sindaco di 826 Valencia. Ogni sede di 826 National è dedicata a una diversa attività: a New York abbiamo un garage a Brooklyn per la manutenzione dei super-eroi, a Michigan si aggiustano Robot. Anche Nick Hornby nella sua scuola, vende delicatezze per mostri. Tra queste una bellissima collezione di lattine, simili a quelle di Piero Manzoni, con dentro misteriose pozioni per creare sintomi di disagio, far crescere il panico, impedire di rilassarsi, far battere i denti e tremare… e in ognuna è nascosto un racconto. Tutto questo serve a finanziare l’associazione».
Cosa intende quando dice che 826 Valencia vuole essere il “terzo posto”? «Dopo la famiglia, e la scuola, veniamo noi. Non vogliamo sostituirci a nessuno, vogliamo soltanto aiutare. Nelle scuole americane ormai si fanno soltanto test. Noi proviamo a far appassionare i ragazzi al racconto. Le storie tengono insieme, cuciono, confortano. Se perdiamo la capacità di raccontarci, perdiamo il senso del nostro stare al mondo. Ma per potersi raccontare, i ragazzi hanno bisogno di essere ascoltati, e noi facciamo soprattutto questo: li ascoltiamo”. Permettete ai ragazzi di usare internet? «Solo dopo che hanno finito i compiti. E con molta, molta parsimonia. La rete è un diabolico meccanismo di distrazione».

da La Repubblica