attualità, politica italiana

"Ecco la squadra per la quale voto", di Ilvo Diamanti

L’eliminazione dell’Italia dai mondiali ha rarefatto l’esibizione di bandiere alle finestre e sulle terrazze. Eppure i tricolori resistono, almeno nel mio quartiere. Non ne avevo visti tanti il 2 giugno, festa della Repubblica, né, tanto meno, il 25 aprile, anniversario della liberazione .
Ma I mondiali di calcio hanno, da sempre, la capacità di sollevare l’entusiasmo nazionale. Anche in quest’area, nel cuore del Nordest, con una tradizione leghista di lunga durata. Dove si incontrano alcune bandiere della Serenissima Repubblica di Venezia, che evocano l’indipendenza veneta. Issate, talora, accanto a quelle dei forconi. Ogni manifestazione secessionista, d’altra parte, ha prodotto, per reazione, una vampata di orgoglio nazionale. Lo ha ben compreso il nuovo leader leghista, Salvini. Che ha rilanciato i consensi elettorali al partito mettendo fra parentesi lo spirito separatista e l’identità padana. E ha, invece, puntato sul messaggio antieuropeo e sul contrasto all’immigrazione. Procedendo, dunque, accanto al Front National di Marine Le Pen. Iper-nazionalista.
D’altronde, il tricolore è stato utilizzato ed esibito, a livello di massa, nel 2011, in occasione del 150enario dell’Unità, proclamato e sostenuto in modo “militante” dal Presidente Napolitano.
Così, è divenuto parte dell’iconografia urbana e domestica. Come i fiori e le decorazioni, nei giorni di festa. E, in molti, lo espongono, in alcune, specifiche, occasioni. Per rammentare, a se stessi e agli altri, un elemento di unità e di coesione, in una società sempre più dispersa e frammentata. Dove è difficile chiamare per nome chi ti sta accanto e nel palazzo di fronte – non dico a 100 metri di distanza – perché non lo conosci. Non sai chi
sia, che mestiere faccia e da dove venga. Per questo, i tricolori invadono il quartiere, quando gioca l’Italia. Ma resistono, per qualche giorno ancora, mentre in tivù passano le immagini e le cronache di altre nazionali – Brasile, Francia, Algeria, Olanda. Costarica… Sono il segno di un’identità leggera, eppure persistente, che si nutre di memoria. E di emozioni. Come dimenticare le “notti magiche” del mondiale del 2006? Oppure, per chi ha un’età più avanzata, del 1982? Quando tutte le strade e tutte le piazze del paese si riempirono di gente, festante – e di tricolori?
D’altronde, le fonti di identità e di riconoscimento, che uniscono e dividono gli italiani, sono ormai poche. La politica lo è sempre di meno. Perché è attraversata da un distacco generalizzato. Contro tutto e tutti. Partiti e politici, istituzioni. Sindacati e organizzazioni di categoria. E quando la sfiducia è totale, le identità e le appartenenze diventano deboli. Resistono, appena, le distinzioni più generali. Moderati e progressisti. E soprattutto: destra e sinistra. Ma, anch’esse, a fatica. Il forum promosso da Repubblica.it, presso i propri lettori, nei mesi scorsi, per identificare le parole e i concetti di Sinistra, ha delineato, infatti, un catalogo ampio e frastagliato. Circa trenta definizioni, nessuna delle quali è andata oltre il 10% di condivisioni (su oltre 65 mila rispondenti). Così, diviene arduo “cementare” le fedeltà politiche e dare continuità alle scelte di voto. Non per caso, una quota ampia e crescente degli elettori cambia schieramento da un’elezione all’altra. Oltre il 40%, nel 2013. Oltre il 30% alle ultime elezioni europee. E il 20% decide nell’ultima settimana. Il 10-12% all’ultimo minuto. “Per chi” e, prima ancora, “se” votare (Sondaggio Demos-LaPolis, giugno 2014). Fino al 2008, il “movimento” elettorale da un polo all’altro non superava il 10% (Sondaggi Itanes). E l’incertezza era molto più limitata.
Così non si vota più per appartenenza. Ma, piuttosto, come suggerisce Arturo Parisi, per “abitudine”. E le abitudini sono resistenti, ma non come la fedeltà.
Non ci resta, quindi, che il calcio. Perché ormai tutto si può cambiare. Partito, schieramento e leader di riferimento. Ma non la squadra per cui si tifa. D’altronde, oggi il 47% degli italiani (sondaggio Demos, giugno 2014) si sente “tifoso” di una squadra di calcio. Nel settembre 2013, la quota era inferiore di oltre 10 punti. Il clima del campionato, finito da poco, ha alimentato la passione. Ancor più i mondiali. Non a caso, l’80% degli intervistati si dice tifoso della Nazionale. Il calcio sembra, dunque, l’ultimo e unico segno rimasto di un’identità comune. In grado di unire, ma anche dividere. Il 22% degli italiani, infatti, in base all’intensità del tifo, può essere definito un tifoso “militante”. E un altro 15%: “caldo”. Disposto a esporsi in pubblico. Molto più difficile, invece, dichiararsi militanti di partiti che cambiano nome e leader con crescente velocità. È, infatti, complicato affezionarsi al PD quando si è stati comunisti, poi del PDS, dei DS, oppure Popolari, Democratici e della Margherita, passando per l’Ulivo. Fino a sfociare nel PdR: il Partito di Renzi. E che dire di chi è stato forzista e leghista? I forza-leghisti, come li ha definiti Edmondo Berselli, che maglia indosseranno oggi?
Cercate, invece, qualcuno disposto a cambiare la propria maglia e la propria bandiera, quando si tratta di calcio. Qualcuno disposto a passare dalla Juve all’Inter. Oppure al Milan (con qualche eccezione, per “fede” aziendale…). Dalla Roma alla Lazio. Al Napoli. Oppure ad abbandonare la Fiorentina, il Toro. L’Atalanta, il Verona oppure il Chievo. Il Cagliari oppure l’Ascoli. “Quando” e “se” non vincono. Cambiare squadra non è possibile. Significherebbe tradire se stessi. Più facile, semmai, contaminare il calcio con la politica. Sovrapporre una bandiera di partito a quella di club. Gridare: Forza Italia! Oppure, per i leader, esibire il proprio tifo. Allo stadio o in tivù. Perché la “fede” calcistica dura molto più di quella politica. E la mediatizzazione, invece di dissolverla, riesce perfino a rafforzarla. Giusto, per questo, guardare con attenzione al “tifo”, in questo tempo e in questo Paese, dove le identità sono frammentarie e deboli. E possono, per questo, dissolversi. Oppure, al contrario, venire spinte “in curva”. Fino, talora, a radicalizzarsi. In modo estremo.
È il tempo della post-politica e dei post-partiti. Senza passione e senza bandiere. Senza mobilitazione e senza fiducia. Nel quale i principi non negoziabili dell’identità sono affidati al calcio. Io, che per vocazione e per professione, agisco da osservatore disincantato, ammetto, per una volta, di sentirmi fuori luogo e fuori tempo.

da La Repubblica