attualità, politica italiana

Il coraggio di regole per un lavoro «semplice», di Alberto Orioli

L’Italia intenzionata a far prevalere l’Europa dei cittadini e del lavoro versus l’Europa degli egoismi rigoristi e burocratici non può permettersi di fallire l’appuntamento del varo della delega sul lavoro. La discussione in Senato entra nel vivo la prossima settimana: avrà, oltre al normale carico “emozionale” che caratterizza l’argomento da almeno 40 anni, anche un’attenzione specificamente europea, con gli occhi degli altri partner, primi quelli di Angela Merkel, pronti a cogliere da questa prova parlamentare i segnali di vera svolta nel riformismo italiano. Che, non va dimenticato, è l’unica moneta di scambio per un’Italia intenzionata a “comprare” la flessibilità di cui c’è gran bisogno per evitare l’insostenibile maratona di riduzione del debito imposta dal fiscal compact e ormai diventata proibitiva in tempi di deflazione e di crescita prossima allo zero.
Non ci sarà spazio per nuovi ammortizzatori sociali se questi diventeranno una fonte di spesa pubblica aggiuntiva e non invece misure di redistribuzione delle risorse esistenti o remunerate secondo nuovi sistemi “assicurativi” per categorie che oggi non concorrono al finanziamento di strumenti di sostegno di cui, però, usufruiscono.
Sarebbe una nuova Italia dell’azzeccagarbuglio quella di una delega che introducesse un’ulteriore fattispecie contrattuale quando invece annuncia di voler semplificare la giungla dei rapporti di lavoro e delle forme contrattuali. La delega si impegna a introdurre il contratto a tutele crescenti, ma la riforma dei contratti a termine ne ha molto ridotto l’utilità. La domanda nuova è: come si fa a rendere ancora più competitivo-conveniente il contratto a tempo indeterminato? Sarà decisivo che i senatori abbiano questo quesito come obiettivo strategico. Per rendere, finalmente, semplice sia l’ingresso nel mondo del lavoro sia l’uscita dal mercato del lavoro. Senza guerre di religione sull’articolo 18.

L’Europa ci guarda: non sarebbe una grande performance quella di un Paese che, ancora una volta, privilegiasse un testo anodino e ambiguo avendo già il retropensiero di una gestione quotidiana da affidare alla conflittualità permanente di fronte ai giudici, finora veri delegati-ombra per la gestione di una materia tanto delicata e cruciale.
La delega deve diventare l’occasione – a dirla con Renzi – per «cambiare verso» formulando una legge che sia finalmente chiara e leggibile, frutto di scelte politiche coraggiose e limpide.
L’Europa guarderà molto anche all’atteggiamento che l’Italia avrà nella discussione sul salario minimo: gli 8,5 euro l’ora decisi dalla Germania spiazzerebbero molti dei posti di lavoro esistenti da noi. La scelta di una soglia, per natura sua, include ed esclude intere porzioni di popolazione e non può non considerare, Paese per Paese, il modello di relazioni sociali e di contrattazione oltre ai livelli salariali e le dinamiche del mercato del lavoro. L’Italia resta il Paese europeo più ancorato a un modello robusto di contrattazione nazionale e aziendale che dà certezze alle parti le quali, tra l’altro, dopo 60 anni, con l’intesa sulle regole per la rappresentanza, hanno scelto – all’unanimità – di rendere esigibili (erga omnes) gli accordi superando il vecchio criterio del conflitto con quello della responsabilità delle regole. Il sistema dei contratti ha garantito, finora, un flusso regolare e compatibile di risorse, l’unico ad avere contrastato, seppure solo in parte, il calo della domanda (con l’aumento dello 0,6% su base annua del reddito disponibile, corretto in peggio dal potere d’acquisto delle famiglie che cala dello 0,2% annuo). Sarebbe grave se poi il salario minimo fosse pensato per scardinare la contrattazione e portare, in un Paese dove la coesione sociale è un valore economico, il free riding del tutti contro tutti, passando per una definizione tutta “politica” della somma minima. È di buon auspicio il fatto che nella delega questa misura sia considerata solo «eventuale».
Il segnale di fondo che la delega dovrebbe dare è quello del cambio di rapporti all’interno delle voci di bilancio del sistema del welfare. E dare al ministero anche qualche chance in più nel duello costante con la Ragioneria e il ministero dell’Economia che vede oggi perdente il dicastero guidato da Giuliano Poletti. L’Italia – ed è una contestazione che più volte Bruxelles ha mosso a Roma – ha una gestione praticamente inesistente nelle politiche attive. Vale a dire in quelle azioni pubbliche e private che aumentino il valore del capitale umano, che rendano più semplice l’incontro tra domanda e offerta di lavoro, che facilitino l’autopromozione dei lavoratori potenziali e creino banche dati efficienti per il reale funzionamento del più delicato dei mercati, quello del lavoro appunto. La delega, inoltre, sembra sottovalutare l’impatto costituzionale che avrebbe la creazione della nuova Agenzia nazionale, partecipata da Stato, Regioni e Province e vigilata dal ministero, per la gestione dei servizi all’impiego. Purtroppo finora queste materie sono state una delle tante vittime della riforma del Titolo V: sono le Regioni titolari, secondo l’ultima versione del testo costituzionale, di queste materie e, di certo, non hanno dato buona prova. Non è da escludere – e i giuristi sono all’opera – che la nuova Agenzia nazionale abbia bisogno di un imprimatur di natura costituzionale e debba finire nel grande calderone delle riforme istituzionali a cominciare dalla revisione del Titolo V e dei poteri regionali. Una ennesima formulazione ambigua però rischierebbe solo l’impugnazione dopo pochi giorni: né avrebbe senso se si aggiungesse alle strutture già esistenti (Isfol, Italia Lavoro, le diverse agenzie regionali) creando solo duplicazioni e, di fatto, clientele. Una certezza però c’è: al Paese serve una struttura efficiente che possa collegare i servizi all’impiego alle erogazioni degli ammortizzatori sociali e dove pubblico e privato possano collaborare in modo sinergico e, dove utile, sussidiario.
Anche in questo caso, per l’Italia si profila un test di riformismo. Quello che l’Europa ci chiede di superare a pieni voti. Un riformismo efficiente e facile da applicare. Insomma, per dirla con gli hashtag come si usa ora: #lavorosemplice. Semplice da creare, da gestire, da trovare.

La Repubblica 05.07.14