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"Sul confine fra Usa e Messico dove muore il sogno dei bambini",di Paolo Mastrolilli

Partono dal Centramerica per raggiungere un famigliare negli Stati Uniti. Molti non ce la fanno, uccisi dagli stenti o venduti ai trafficanti di esseri umani. Juan Castro cerca di mantenere la compostezza professionale, mentre racconta, ma le lacrime che gli bagnano gli occhi sono più forti di lui: «Sto davanti a questa bambina undicenne del Guatemala, che è stata stuprata. Devo chiederle di ricordare come, dove, da chi, perché ogni dettaglio servirà a costruire il caso per farla restare in America. Mentre la ferisco di nuovo con le mie domande, cerco nei suoi occhi abbassati un filo di speranza, un segno che la sua vita non si è spezzata».

Juan è il direttore dei servizi legali di Catholic Charities, la Caritas di San Antonio. Il suo mestiere è andare a visitare nei centri di detenzione i minorenni entrati illegalmente da soli negli Stati Uniti, per cercare il modo di salvarli.
Sono un’infinità: 52.000 dall’inizio dell’anno, 90.000 stimati entro dicembre, oltre 120.000 attesi l’anno prossimo. Molti arrivano malati: almeno un caso confermato di influenza suina, scabbia, pidocchi, qualcuno dice anche Aids. Un’emergenza umanitaria che ha spinto il presidente Obama a chiedere due miliardi di dollari al Congresso, per arginarla. «I motivi – spiega il presidente di Catholic Charities, Antonio Fernandez – sono due: la violenza nei Paesi da cui scappano, e la percezione che le leggi sull’immigrazione negli Usa sono cambiate, e consentono di restare. È una percezione sbagliata, perché Obama ha firmato il Daca, che differisce l’espulsione degli illegali entrati da bambini, ma non si applica a quelli che vengono oggi».
Castro racconta come arrivano: «Non sono messicani, perché gli Usa hanno un accordo con questo paese per espellere subito tutti gli illegali. Vengono da posti tipo Salvador, Guatemala, Honduras, Perù. Le famiglie li affidano ai coyote, i trafficanti, pagando circa 8.000 dollari a viaggio, in genere per raggiungere parenti che vivono già negli Usa. Metà dei soldi li danno subito, e metà dopo l’arrivo a destinazione.

Il commercio di ragazzine
Per queste famiglie povere, però, 8.000 dollari sono un patrimonio, il lavoro di diversi anni. Se non li hanno, i bambini sono costretti a pagare in due modi: sesso, oppure trasporto di droga». E stiamo parlando di quando va bene: «Sappiamo che alla partenza il numero dei bambini e delle bambine è uguale, ma poi arriva solo il 75% dei primi e il 25% delle seconde. Cosa succede durante il percorso? Molti non ce la fanno e muoiono. Per le bambine, poi, si fanno avanti i trafficanti di esseri umani, che offrono ai coyote anche 20.000 dollari, contro i 4.000 che prenderebbero dalla famiglia se completassero la consegna. Così le ragazze vengono vendute al miglior offerente e finiscono nella prostituzione: un mese fa hanno scoperto un giro in New Jersey. Poi ci sono i coyote che affittano i bambini agli adulti che vogliono immigrare, perché pensano che se li prendono con figli o figlie finte hanno più probabilità di restare. Una volta superato il confine non sanno cosa farsene di questi ragazzini, e li abbandonano».

Peggio ancora è andata a Gilberto Francisco Ramos Juarez, undicenne scappato dal Guatemala, per raggiungere il fratello a Chicago e guadagnare i soldi necessari a curare la madre malata di epilessia. Il 15 giugno scorso gli agenti dello Us Border Patrol hanno trovato il suo cadavere in putrefazione nelle campagne intorno a La Joya, un paesino di 3.303 abitanti a tre chilometri dal Rio Grande, che segna il confine col Messico, epicentro della valle dove è in corso l’invasione. Aveva indosso gli stivali di pelle, un paio di jeans «Angry Birds», e al collo un rosario bianco. «Ha perso la strada – dice Fernandez – ed è morto di sete. Laggiù la temperatura in questa stagione supera ogni giorno i 40 gradi. La cosa più terribile, da quanto ne sappiamo, è che gli agenti del Border Patrol lo avevano intercettato dopo il passaggio del fiume, ma lo hanno lasciato andare. Chiudono gli occhi perché non sanno più come fare. Lunedì 23 giugno hanno fermato 346 bambini, in un solo giorno, che attraversavano il confine. In teoria dovrebbero portarli nei centri di detenzione, dove possono restare fino a 72 ore; poi per 120 giorni in strutture che cercano i loro parenti negli Usa; e quindi per due anni negli istituti di accoglienza. Ma non ce la fanno più: i bambini in arrivo sono troppi, gli agenti troppi pochi, e quindi chiudono gli occhi: andate dove volete, basta che sparite».

Situazione fuori controllo
Nell’asfissiante commissariato di polizia di La Joya, il detective David Ortiz conferma che la situazione è fuori controllo. Comandano le gang dei narco, come Los Zetas: «Spesso i coyote sbarcano i ragazzini da una parte del fiume, per costringere gli agenti a soccorrerli, e intanto un miglio più in su fanno passare la droga. Una sera ho visto un camioncino che mi insospettiva, e ho cominciato a seguirlo. Sono arrivate subito due auto, che si sono piazzate una davanti e una dietro alla mia. Erano esche che facevano manovre folli: volevano buttarmi fuori strada, oppure obbligarmi a fermarli per fare la multa, lasciando così scappare il camioncino. Io però ho continuato a seguirlo, e quando l’ho bloccato ho scoperto che trasportava ottanta chili di marijuana. Sapete dove sta adesso, questo signore? A casa sua: ho potuto fargli solo una multa per eccesso di velocità, perché non ho altri poteri. I casi di traffico di droga ed esseri umani competono alle autorità federali, ma il nostro procuratore locale ha smesso di aprirli, perché dice che non ha più le risorse. Così io sto qui a parlare con lei, aspettando che lo Stato mi dia il permesso di andare ad arrestare quel criminale».

È la ragione per cui Chris Davis, comandante della milizia dei Patriots nel sud del Texas, sta organizzando ronde di vigilantes: «L’amministrazione ha un’agenda politica: vuole aprire i confini e dare l’amnistia, per fare contenti gli elettori ispanici. Quindi il 70% dei pochi agenti di frontiera rimasti ha ricevuto l’ordine di assistere i bambini in arrivo: cambiano i pannolini, invece di pattugliare il confine. Allora noi andiamo al posto loro, e li avvertiamo quando vediamo qualcuno che attraversa il fiume». Ma siete armati? «Ehi, quaggiù ci sparano addosso pure i ragazzini! I coyote sono peggio dei taleban: quelli almeno devono rispondere ad Allah di cosa fanno, mentre i trafficanti rispondono solo ai loro istinti. Gli viene voglia di stuprare la bambina che accompagnano? La stuprano. È diventata un’ostacolo? L’ammazzano. Tanto lei non esiste, e loro sono i padroni assoluti». Fernandez la mette in maniera un po’ diversa: «Io lavoro per la Caritas, il mio mestiere è aiutare senza fare domande. Però è chiaro che gli Usa, come molti Paesi europei, sono arrivati al bivio: devono decidere se investire nel controllo dei confini, o nella riforma dell’immigrazione. La prima ipotesi significa alzare un muro lungo tutto il confine, e piazzare un agente ogni cento metri giorno e notte. La seconda richiede di riconoscere che i Paesi sviluppati hanno bisogno degli immigrati, e quindi andarli a individuare legalmente nei loro luoghi d’origine, togliendo questa tragedia dalle mani dei trafficanti. Poi bisogna aiutare le nazioni povere a crescere, ma questo non risolverà l’emergenza di oggi».

La violenza delle gang
Rina Guaimaca non aveva tutto questo tempo da aspettare: «In Honduras le gang ci taglieggiano. Già guadagniamo niente, poi la metà dobbiamo darla a loro. Io ho un figlio di sette anni, Fernando, e non voglio crescerlo così. Perciò ho deciso di scappare, e raggiungere mia madre che lavora in Oregon».
Incontro Rina nei locali che la parrocchia Sacred Heart di McAllen ha trasformato in centro di accoglienza per gli immigrati: vengono scaricati qui dal Border Patrol, dopo le 72 ore nel centro di detenzione, in attesa di ricongiungersi con i famigliari. Ci sono brandine, docce, medici, pasti, scarpe e vestiti per il lungo viaggio. Anche un angolo attrezzato con tappetini, dove i bambini giocano, disegnano e ridono, ignari della loro sorte. Fernando osserva felice il suo yogurt, mentre la mamma racconta: «Mio zio mi ha raccomandato un coyote di cui si fidava. Ho pagato 7.000 dollari e siamo partiti. Ci abbiamo messo quindici giorni per arrivare a Reynosa, la città messicana dall’altra parte del confine. Là abbiamo aspettato nascosti dentro un ranch, finché una sera alle dieci ci hanno chiamati. Ci hanno portati sul bordo del fiume, dove aspettava una piccola barca. Siamo saliti in quattro, e poco dopo eravamo sull’altra sponda. Abbiamo aspettato la prima pattuglia di agenti che passava, e ci siamo consegnati. Niente violenze per noi, il coyote era un bravo vecchio».

I «coyote» di Reynosa
Sopra al ponte che porta da McAllen a Reynosa non controllano neppure i passaporti: chi vuole emigrare in Messico? Basta pagare il pedaggio di due dollari. Sull’altra riva, dove il Rio Grande diventa Rio Bravo, c’è persino un monumento dedicato agli emigranti: una croce bianca, eretta alla memoria dei caduti nella marcia verso un sogno. Vicino un cartello avverte che nel fiume ci sono gli alligatori, e le correnti sono micidiali. Con le indicazioni ricevute da Rina, non è difficile trovare qualcuno che lavora nel business principale del posto: «Coyote? Certo, qui siamo tutti coyote». Ha una faccia liscia, qualunque, e scuote la testa: «Di mezzo ci saranno pure le gang o i narcos, ma io ho solo una barchetta con cui trasporto cinque o sei disperati alla volta. Ci guadagno? Certo. Ma è pure un mestiere pericoloso». Si volta un ultimo istante, prima di sparire: «Fa schifo? Forse. Ma si vede che la vita da cui scappano questi poveracci fa ancora più schifo». Il miracolo dell’uomo dannato che mette Dio sulla bocca degli uomini, come scriveva Graham Greene, non esiste più. Su questa sponda del Rio Bravo sono rimasti solo i dannati.
Torno alla chiesa Sacred Heart di McAllen. È il 4 luglio, festa dell’Indipendenza americana. Rina sta uscendo con una busta gialla in mano, dove c’è scritto: «Vado in Oregon. Non conosco l’inglese, per favore indicatemi l’autobus che devo prendere». Sorride felice e bacia Fernando: «Partiamo. Andiamo in bus da mia madre». Ancora un paio di giorni sulla strada, e poi questo incubo lascerà posto al sogno che lo aveva generato.

da www.lastampa.it