economia, lavoro

"Debito, crescita e occupazione: il flop dell’austerity", di Carlo Buttaroni

In un saggio del 2002, «Globalization and Its Discontents», l’economista e premio Nobel Joseph Stiglitz analizza le crisi finanziarie degli anni Novanta, mettendo in luce come le ricette imposte ai Paesi in crisi dalle istituzioni economiche internazionali (in particolare il Fondo Monetario Internazionale), fossero sempre basate sulla riduzione della spesa pubblica e su una politica monetaria deflazionista. Ricette che, peraltro, in tutti i casi si sono rivelate inefficaci o, addirittura, dannose per il superamento della recessione. Quello che sembra sempre più un «dibattito proibito», per riprendere il titolo di un felice libro di Jean-Paul Fitoussi, si rivela quindi non così nuovo, ed evidenzia come l’austerità messa a punto dai tecnocrati di Bruxelles sia un principio attivo del qua
le era stata già ampiamente dimostrata la tossicità per le economie nazionali. Ma tutte le critiche alle politiche economiche basate sull’austerità sono sempre state avvolte da una cortina di silenzio che ha visto complice la politica. Anche in Italia gli esempi sono innumerevoli e vanno dal «fiscal compact» alla follia del «pareggio di bilancio» in Costituzione. Esempi che dimostrano la subordinazione della sovranità politica agli indirizzi delle élite tecnocratiche europee, al mantra dei «sacrifici inevitabili» e della politica dei due tempi che si fonda sull’idea che per non diventare poveri nel futuro è meglio diventarci subito.
La prova del «silenzio» che avvolge il dibattito intorno all’austerità è in un’opinione pubblica convinta che la crisi abbia origine nell’eccessivo debito pubblico, mentre la causa scatenante della crisi è nell’indebitamento privato e, per paradosso, anche nei salari troppo bassi dei lavoratori che hanno avuto progressivamente meno reddito per acquistare ciò che, invece, erano in grado di produrre in quantità sempre maggiore.
Sembra inveromile che intorno al portare avanti scelte di politica economica così dannose ci sia stata tanta perseverante determinazione, anche quando gli effetti collaterali si sono resi così evidenti da non richiedere alcun supplemento di riflessione. Nessuna delle premesse delle politiche dell’austerità si è realizzata: non la crescita del Pil, che si sta rilevando talmente lenta da far pensare a una fase di stagnazione; non l’occupazione, in continua diminuzione; non il debito pubblico, in inarrestabile ascesa. Basta vedere gli effetti sull’occupazione nel nostro Paese, diminuita di oltre un milione di unità dall’inizio della crisi. E con un rapporto tra popolazione e lavoratori come quello attuale, non c’è possibilità di uscire dalle acque basse in cui il Paese si è incagliato, perché manca la forza motrice. È questo lo spreco vero, di cui non si parla mai, irrecuperabile e intollerabile.
Lo spreco del capitale umano, di chi ha perso il lavoro e, mese dopo mese, vede deteriorarsi le proprie competenze; quello dei tanti giovani che oggi non lavorano e che, se e quando lo troveranno, sarà a salari inferiori di quelli che percepivano coloro che li hanno preceduti, compromettendo qualsiasi aspirazione e progetto di vita. Questi sprechi sono superiori a qualsiasi debito che si possa immaginare e non rappresentano solo il fallimento di una prospettiva individuale, ma il dissolvimento di un orizzonte pubblico.
È questo il risultato dell’«austerità e precarietà espansiva» che ha agito in base alla teoria che dal contenimento dei deficit pubblici si liberassero risorse che il privato avrebbe utilizzato più efficacemente. Una teoria che non teneva in minimo conto del «vuoto didomanda» che l’arretramento del pubblico determinava sul mercato interno. Il risultato è stato, invece, che la minore domanda pubblica non è stata compensata da quella privata, facendo precipitare la domanda interna e lasciando l’onere della crescita a una domanda estera (non più trainante) che pesa meno del 20%, mentre il rimanente 80% è rappresentato dai consumi delle famiglie, dagli investimenti (privati e pubblici) e dai servizi collettivi.
Il secondo pilastro delle follie tecnocratiche europee è stata la convinzione che l’aumento dell’occupazione potesse essere generata da un aumento della flessibilità del lavoro, sia contrattuale che retributiva. Anche in questo caso gli esiti sono stati quelli prevedibili: una sostituzione delle condizioni più che una creazione di lavoro, con conseguente riduzione di tutele e diritti, per chi li aveva conquistati nel passato e l’istituzionalizzazione della precarietà per chi si attendeva un miglioramento dello stato in cui era confinato. Col risultato, altrettanto prevedibile, che le retribuzioni nominali sono state compresse, le retribuzioni reali diminuite e i consumi delle famiglie conseguentemente ridotti, aggravando gli effetti negativi delle politiche di austerità sulla domanda interna.
Non è un caso, quindi, che il problema principale dell’Italia, in questo momento, sia proprio la debolezza della «domanda interna». Così come non è uno strano scherzo del destino che la contrazione dei redditi abbia avuto come effetto un consistente calo dei consumi, considerando che a trovarsi con meno soldi da spendere sono state proprio quelle fasce di lavoratori che convertono in acquisti una percentuale proporzionalmente più elevata del proprio reddito.
Gli effetti della compressione della domanda, inevitabilmente, hanno condizionato l’offerta. Basti pensare che il grado di utilizzo degli impianti delle imprese manifatturiere italiane oggi è soltanto al 72% del potenziale e dall’inizio della crisi l’industria ha perso quasi un milione di posti di lavoro. Se la domanda interna avesse, invece, stimolato un utilizzo al 100% degli impianti, l’effetto si sarebbe tradotto in un milione di occupati in più che, stimolando a loro volta la domanda, avrebbero alimentato nuova occupazione. Con la domanda che langue, invece, se anche il costo di un lavoratore fosse pari a zero, le imprese non avrebbero comunque alcun interesse ad assumere, perché le merci che quel lavoratore sarebbe in grado di produrre rimarrebbero chiuse nei magazzini o invendute sugli scaffali. E in queste condizioni, l’interesse dell’impresa non può essere che quello di sostituire un lavoratore che costa di più con uno che costa meno, ricev
endo un vantaggio immediato in termini di costi di produzione, ma un danno sul lungo termine come capacità di crescita della domanda. E, soprattutto, in questo modo non ci può essere alcun vantaggio in termini di occupazione, vero ostacolo e, nel contempo, unica ricetta per una reale ripresa.

da L’Unità