cultura, memoria, politica italiana

"Madri e operaie: i diritti ottenuti a caro prezzo", di Andrea Bonzi

Le discriminazioni nelle grandi fabbriche, le lotte per la conquista di una parità che non è ancora tale. «SENZA GIUSTA CAUSA» ci porta nella Bologna degli anni ’50. Qaundo militare nel sindacato o nel PCI e diffondere l’Unità costava il posto.

Rosa fu licenziata perché, «dopo settimane di lavoro senza riposo, chiesi di poter rimanere a casa al mattino perché dovevo studiare». Bruna ricorda come il padrone «ci facesse lavorare fino alle dieci di sera senza pause. Faceva in modo di avere un magazzino bello pieno e poi, dopo due o tre mesi, ci licenziava». E quando fu cacciata Teresa pianse, perché, nonostante tutto «alla Sasib volevo bene. A me, che ho fatto la quinta elementare la fabbrica mi ha insegnato come se fossi andata all’Università, a muovere le mani, a lavorare, a ragionare, a ponderare le cose». Racconti forti, quelli delle donne licenziate per rappresaglia politico-sindacale negli anni ’50 a Bologna, uno dei cuori manifatturieri dell’Italia di quegli anni, raccolti nel volume “Senza giusta causa” di Eloisa Betti e Elisa Giovannetti uscito per i tipi dell’Editrice Socialmente con il sostegno della Camera del lavoro del capoluogo emiliano-romagnolo e dell’Unione donne italiane (Udi). Storie attuali oggi una volta di più, a pochi giorni dai numeri diffusi dall’Istat sullo “sprofondo rosa” della disoccupazione femminile, che ha sfiorato il picco del 14%. Vicende che – seppur a distanza di sei decadi – ci fanno capire come, nel mondo del lavoro spesso a pagare siano le donne, le madri, le lavoratrici.
ALMENO 15.000 LICENZIATI PER RAPPRESAGLIA
Sul territorio nazionale i licenziati per rappresaglia – ovvero perché sostenitori del Partito comunista o attivisti nel sindacato – furono oltre 15.000. Questo è il numero dei lavoratori che videro riconosciuto questo status,ma le domande pervenute dall’introduzione della legge nel 1974 furono almeno il doppio. Dunque non è facile capire quanti furono colpiti da questa discriminazione, ma alcune ricerche ipotizzano che la sorte di perdere il lavoro per aver sostenuto le proprie idee toccò almeno a 40.000 italiani e italiane. Erano tempi in cui le autorità cercavano di negare il permesso alle Feste de l’Unità e di ostacolare le attività delle Case del popolo e dei Cral, i Centri ricreativi per lavoratori. Si tennero processi per gli operai che raccoglievano firme e vendevano l’Unità (nella sola Bologna tra 1948 e 1954 furono 657), per chi partecipava a incontri politici (331 sempre nel capoluogo emiliano nello stesso periodo), infine per chi – la maggioranza, oltre 2.000 – si era reso colpevole di reati di parola, opinione e propaganda. E le donne? Si calcola che le licenziate per rappresaglia fossero almeno il 16% di quanti avevano fatto domanda,maè difficile avere una quantificazione più precisa. In particolare, a Bologna, ricordano le autrici, «le donne avevano un ruolo nella sfera pubblica e produttiva senza eguali», e dunque nel secondo Dopoguerra cominciarono a rivendicare il lavoro non solo come mezzo di sostentamento, bensì come diritto in quanto tale e strumento per la stessa emancipazione della condizione di sudditanza sociale”. Un diritto, per la verità, ostacolato in primis dalle istituzioni con provvedimenti discriminatori che davano, di fatto, la possibilità di licenziare le donne e ne decretavano l’espulsione da settori a gestione statale come le Ferrovie. Le motivazioni erano paradossali: oltre a ribadire il ruolo “essenziale” delle madri in famiglia, si aggiungeva la convinzione che espellendo le donne dalla produzione si sarebbe potuto risolvere facilmente il problema della disoccupazione. A Bologna su 1.900 licenziati per rappresaglia riconosciuti, 690 furono donne, quasi tutte cacciate tra 1948 e 1955, ricorda lo storiografo Luigi Arbizzani.
Sempre numeri ufficiali, sempre in difetto. Tra i nomi delle fabbriche in cui si svilupparono le vertenze più dure figurano marchi noti, dalla Sasib alla Fonderia Calzoni, dalla Hatù alla Maccaferri, dalla Weber alla Giordani. Prendiamo la Ducati: durante la Seconda guerra mondiale quattro dipendenti su cinque erano donne. Negli anni successivi, la forza lavoro verrà ridotta dai 2.900 addetti del 1948 ai 2.212 dell’aprile 1953. In mezzo, una lotta durissima, fatta propria dalla popolazione e dalle istituzioni bolognesi con iniziative di solidarietà (i contadini portavano il grano e la farina alle famiglie degli operai), e in cui le donne furono in prima linea, scioperando, distribuendo volantini, facendo picchetti. Venendo anche manganellate, la polizia non faceva complimenti. Solo una piccola parte dei licenziamenti fu fermata: essere mandata via «fu triste – spiega Jole – perché avevo sulle spalle la mia famiglia: mia mamma e mia sorella piccola. Rimanere a casa dal lavoro era dura». Da Maria, una sua ex collega, una riflessione sull’importanza del sindacato: «Dopo abbiamo lavorato in altre fabbriche, ma non era come alla Ducati. Là c’era il sindacato; con i “piccoli” lavorare a testa bassa oppure via». Il rispetto dei diritti delle lavoratrici-madri, peraltro stabiliti da una legge del 1950, era spesso una chimera. E non può non far pensare a quello che succede ancora oggi, con le dipendenti costrette a firmare dimissioni in bianco. Ecco la testimonianza di Laura, che lavorava alla Sasib. «Il giorno del ricevimento della lettera di licenziamento ero incinta di 15 giorni – scrive la lavoratrice -. Non potevano licenziarmi. Io gli ho dato la documentazione e loro mi hanno mandato dal medico per il controllo. Però non mi hanno più fatto entrare, allora io tutte le settimane, il lunedì, mi presentavo. Mi vedevano, mi salutavano e io tornavo indietro. La pancia cresceva, e ritiravo tutti i mesi lo stipendio». Il giorno della nascita del figlio, scattò il licenziamento. E tanti saluti.

IN CERCA DI UN FUTURO
Dopo l’espulsione dalle fabbriche i destini prendevano strade diverse. Jole, ad esempio, dopo la Ducati, «dove facevo condensatori che erano una finezza », andava «da una signora che realizzava le ciabatte a casa» e sbrigava le faccende di casa dalla sorella, senza dimenticare il proprio bambino. Bruna, per vent’anni, ha fatto la camiciaia in negozio del centro storico di Bologna,ma«senza libretto e senza contributi». Teresa e Laura hanno invece trovato un posto: la prima alla Omas stilografiche, ma solo dopo aver tant zighè (cioè, «tanto pianto» in dialetto) per la perdita del lavoro alla Sasib; la seconda «a fare le caramelle dai fratelli Toschi, fuori Mazzini». Ma non era facile riciclarsi, come non lo è oggi, per i tanti over 50 troppo giovani per andare in pensione, troppo vecchi per essere appetibili alle società in cerca di agevolazioni fiscali.
Adriana Lodi, classe 1933, sindacalista, che come assessore nel 1969 aprì il primo nido pubblico inaugurando un’era, esemplifica così: «Le donne pagavano di più perché, non essendo mano d’opera qualificata, avevano più difficoltà a trovare un’altra occupazione. Non che per gli uomini fosse facile, intendiamoci…».
A chiudere il testo una postfazione di Susanna Camusso, numero uno della Cgil nazionale. «La repressione, i licenziamenti, furono, come spesso viene chiamato, l’emblema della Costituzione negata nei luoghi di lavoro – tira le fila la leader del sindacato -. Negata perché veniva negato il fondamento di libertà, di uguaglianza e di pari dignità fra uomo e donna. Ma la Costituzione continuerà ad essere negata se il lavoro seguiterà ad essere pensato al maschile al punto da non leggere e vedere le discriminazioni».