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"I ricorsi inutili che affondano la giustizia", di Gian Antonio Stella

Da secoli, la giustizia italiana è alle prese con arretrati da spavento: quasi 8 milioni di processi pendenti.
«Vogliamo e ordiniamo che al fine di limitare le spese ai sudditi ed ai litiganti», stabilì alla fine del Trecento Eleonora d’Arborea, «circa vertenze o liti che non superano i 100 soldi sia vietato appellarsi a Noi o ad altri funzionari regi…». E se qualche cocciuto litigante voleva andare a tutti i costi in appello? «L’appello inoltrato non deve essere accettato, e la sentenza pronunciata dai nostri funzionari deve considerarsi definitiva…». Un solo processo, per le bagatelle, bastava e avanzava.
Era chiarissimo, quel codice di leggi noto come la «Carta de Logu», sulla necessità che uno Stato serio non perda tempo e soldi nelle dispute piccole piccole incoraggiando alle risse tribunalizie i cittadini più rissosi. Tanto più in un Paese come il nostro che, come avrebbe notato molto tempo dopo Montesquieu, è da sempre esposto alla tentazione di andare per vie legali: «Non c’è palazzo di giustizia in cui il chiasso dei litiganti e i loro accoliti superi quello dei tribunali di Napoli: lì si vede la Lite calzata e vestita».
Sono passati secoli, da quell’antico codice. E la giustizia italiana è ancora alle prese, nonostante l’incoraggiante ma modesta riduzione negli ultimi anni, con arretrati da spavento: quasi otto milioni di processi pendenti, per circa due terzi nel civile. Anche per colpa di una massa spropositata di cause assurde o ridicole.
C’è la signora che denuncia la vicina per un irridente sms: «Perepe qua qua qua qua perepe». L’anziana contadina trascinata in sei anni di dibattimenti (assolta) per «furto di una zappa con un dente mancante». Il suocero che querela la nuora per un piatto di agnolotti. E via così. Centinaia di migliaia di baruffe da ballatoio che rischiano di finire in Cassazione. Chiamata in questi anni a decidere per due volte se esista una «servitù di stillicidio» per le camicie sgocciolanti sul pianerottolo di sotto e per due volte sulla brucatina sul campo altrui di un’asina, che benché solitaria va per legge considerata mandria. C’è da stupirsi se la Cassazione, tirata in ballo da una quantità di ricorsi immensamente superiore a quella dei colleghi britannici o francesi, impieghi da 42 a 43 mesi per sbrigare una causa civile e non riesca a smaltire un arretrato di 98 mila appelli che si rivelano poi inammissibili nel 64% dei casi?
Quanto costa, in soldi e tempo e decoro della Giustizia che potrebbe concentrarsi sulle cose serie, una causa per i panni stesi? Quanto pesò sui bilanci il tormentone giudiziario per una mosca che partita da un letamaio punzecchiò malvagia un’anziana signora trevigiana? Per la prima volta, par di capire, stanno facendo i conti.
Ne parleranno giovedì il ministro Andrea Orlando e i vertici della Cassazione. Auguri, perché il tema scotta.
Guai a sfiorarlo: giù le mani dalla Costituzione! Non dice forse all’articolo 111 che «contro le sentenze e i provvedimenti sulla libertà personale (…) è sempre ammesso ricorso in Cassazione»? E ti domandi: quanto peserà, nell’arroccamento su questo tabù, la presenza in Italia di 56 mila avvocati cassazionisti che nella sola provincia di Rieti, come rivelò due anni fa il presidente della Suprema corte, sono 125 contro i 103 dell’intera Francia? E noi qui, a rileggere con un sospiro la «Carta de Logu»…