economia, lavoro

"Semestre italiano ed errori europei", di Leonardo Becchetti

Il semestre italiano è un’occasione da non perdere dove possiamo giocare un ruolo da protagonisti. Per tentare di raddrizzare la situazione economica del Paese e dell’Unione Europea. La crisi finanziaria è nata negli Usa.

Ma da allora in poi gli americani hanno fatto molto per uscirne in fretta mentre l’Ue che non ne era l’epicentro ne rima- ne ancora oggi investita in pieno. Nel 2009 gli Stati Uniti avevano un tasso di disoccupazione attorno al 9% contro il 7% dell’Italia. Oggi loro sono scesi al 6% mentre noi viaggiamo verso il 13%. Il con- fronto in termini di tassi di crescita cu- mulati dal 2009 ad oggi tra Ue, Stati Uni- ti e Giappone è altrettanto impietoso e, all’interno dell’Ue, le diseguaglianze tra area Nord e area Sud dell’Euro sono esplose. Per usare una metafora è come se in una gara di Coppa America l’equipaggio Usa abbia preso un lato della re- gata e quello nostro l’altro lato. Il primo ha cominciato a correre, mentre il secondo si è impallato e adesso insegue a di- stanza cercando di riprodurre con molte esitazioni e lentezze la strategia della bar- ca in testa alla regata.

Negli Stati Uniti hanno capito subito che il «dividendo sociale» della delicata transizione della globalizzazione per i Paesi ad alto reddito (concorrenza con Paesi a basso costo del lavoro) poteva es- sere compensato dallo sfruttamento di un «dividendo monetario». Ovvero dalla novità di poter di fatto stampare moneta senza creare inflazione. Hanno pertanto lanciato la politica di quantitative easing immettendo ogni mese circa 85 miliardi di dollari. Ancora di più ha fatto il Giappone raddoppiando l’offerta monetaria per uscire dalla trappola della deflazione. Nonostante queste massicce iniezio- ni di liquidità l’inflazione giapponese è ancora sotto il 2% e quella americana viaggia attorno a quella cifra a conferma che il «dividendo monetario» della globa- lizzazione esiste.

L’Ue ha proceduto su una strada diffe- rente. Le politiche monetarie della Bce sono state molto timide anche per la diffi- coltà di mettere d’accordo Paesi con posi- zioni politiche e congiunture economi- che diverse e per il fatto che da noi più che negli Usa quasi tutto passa attraver- so le banche. Si è addirittura pensato all’inizio, sulla scia dell’idea del rigore espansivo, che bisognasse iniziare dai ta- gli di spesa pubblica che avrebbero indotto i cittadini a spendere di più anticipando la riduzione di tasse futura. Un’idea cervellotica che non si è ovviamente avverata visti i vincoli di liquidità di famiglie e imprese. I risultati delle politiche errate sono stati devastanti proprio sul versante della sostenibilità del debito su cui si riteneva più urgente intervenire. Il rapporto debito/Pil è esploso da noi (dal 103% del 2007 al 132,7% di oggi) come in Portogallo e Grecia dove la politica della «austerità espansiva» ha realizzato il suo capolavoro: la Grecia ha perso un quarto del reddito e, nonostante due condoni parziali del debito si trova oggi con un rapporto debito/Pil schizzato dal 140 al 177%.

Nella Ue non esiste un problema economico del debito (a livello aggregato i fondamentali sono più solidi di Stati Uniti e Giappone) ma solo un problema poli- tico di mancanza di fiducia e di fraternità tra Stati. E un sistema di patti asimmetri- ci dove tutti violano le regole che si sono dati: a partire dalla Germania per tre an- ni con un surplus superiore al 6% del Pil che viola il limite superiore e produce una rivalutazione dell’euro che danneg- gia le economie più deboli nell’area della moneta comune; per seguire con la Bce che è ben lontana dall’obiettivo tenden- ziale di un’inflazione al 2% e che, con i tassi di variazione dei prezzi vicini allo zero, sta facendo esplodere il valore rea- le dei debiti pubblici dei Paesi del Sud dell’eurozona.

In una situazione così difficile ci siamo incartati ancora più di quanto il Fiscal Compact richiedeva mettendo in Costituzione un pareggio di bilancio che non ci era richiesto, violando così un principio di fondamentale ragionevolezza: quello per il quale in Costituzione vanno indicati i fini e non i mezzi, che vanno invece adattati in modo ottimale a contesti mutevoli. È come se invece di scrivere in Costituzione che vogliamo puntare sempre alla vittoria dicessimo che ci impegniamo a giocare sempre con il 4-4-2.

Tutto questo non serve a negare lo sforzo che il Paese deve fare dal lato dell’offerta per colmare gli spread di economia reale che vantiamo rispetto alle migliori economie dei Paesi membri. Siamo in grave ritardo quanto ad efficienza della giustizia civile (durata eccessiva dei processi), della pubblica amministrazione, lotta alla corruzione, livelli di istruzione, investimenti in ricerca, diffusione della banda larga ed altro ancora.

Paradossalmente oggi (ed il premier sembra esserne consapevole) l’Ue si sal- va ed evita l’iceberg verso cui sembra di- retta solo se si alza il livello ideale e il tono dello scontro. Ricordando che le ri- sposte alla crisi che usano solo il bilanci- no dei ragionieri ricordano quelle del far- dello dei debiti che, post Prima Guerra mondiale, venne messo sulle spalle della Germania e che avrebbe poi portato al nazismo. Mentre le risposte che unisco- no giustizia a fraternità, come quelle post Seconda guerra mondiale dove fu lanciato il piano Marshall, producono fertilità economica e solidarietà tra i po- poli.

da L’Unità