economia, politica italiana

"Un Paese lasciato in retromarcia", di Carlo Carboni

Con l’avvento della crisi, le lancette dell’orologio si sono fermate per l’economia e la società italiana. Anzi, redditi e consumi si sono rincorsi all’indietro, come i ricordi, fino ai primi anni del nuovo secolo. L’occupazione giovanile, a dispetto dei progressi tecnologici, ha conosciuto una spettacolare disfatta ed è tornata in retromarcia a livelli peggiori anche di trent’anni fa, come se il passato si fosse mangiato presente e futuro.
Anche se ricordiamo con angoscia le terribili follie del 2011, con il Paese sulla graticola dei mercati finanziari, la caduta delle quantità economiche non spiega del tutto la grave battuta d’arresto del paese. Abbiamo attraversato una delle crisi politiche e morali peggiori conosciute in età repubblicana. È mancata una guida, una bussola e il policentrismo è riemerso, accentuando diversità e distanze socioeconomiche tra i localismi urbani. Nel microcosmo italiano, tra ritardi ed eccellenze, è sempre difficile fare un ragionamento d’assieme, ma in questo periodo buio almeno gli indicatori parlano chiaro.
Ad esempio, la dinamica negativa di occupazione e consumi riguarda in maniera più marcata l’Italia ricca di classe media. La retromarcia più spettacolare e inattesa l’ha compiuta la Padania delle piccole e medie città provinciali, con diramazioni in Piemonte e a sud nelle Marche. Si tratta per grandi linee dei territori dello sviluppo locale e dei distretti, dove si sono spente migliaia di piccole imprese e l’incidenza dei giovani imprenditori è in calo. Sul piano sociale è il pezzo d’Italia industriale che ha conosciuto la ferita più profonda del suo ceto medio, decimato tra i piccoli imprenditori e i commercianti; ma anche i ceti dipendenti e professionali della classe media sono stati colpiti dalla drastica diminuzione dei consumi.

Oltre l’implosione di questo pezzo di società italiana provinciale, abituata a un tranquillo e levigato progresso e solo a marginali rovesci congiunturali, il collasso si è naturalmente irradiato nelle società locali meridionali, dove l’involuzione d’occupazione e consumi non è stata altrettanto marcata, ma già si partiva da valori allarmanti. La crisi, in breve, ha non solo acuito la problematicità del nostro Sud, che ha registrato anche una verticale crescita dell’immigrazione straniera (effetto sbarchi), ma l’ha estesa al centro-nord, a città di classe media come Ferrara.
La modernità non si è smentita neppure in questa crisi italiana: ha dissolto e ricreato la tradizione. Mentre nel mondo pre-crisi, cavalcato dalla tecnologia, il consumismo come dimensione d’identificazione sociale si era impadronito del nostro software culturale, la crisi economica e la depressione sociale hanno fatto riscoprire all’individuo l’importanza sociale dell’impresa e del lavoro. Il set-back dei consumi è stato talmente forte che, per proporzioni, ha inciso su un cambio di mentalità: dallo spreco iperconsumista, gran parte della società è passata a stringere sempre di più la cinghia e a comportamenti frugali. La recessione dei consumi ha colpito ovunque e tutti i generi da quelli sanitari, a quelli culturali e rituali. Una folla di piccoli proprietari ha constatato che, a tasse crescenti sulla propria casa, ha fatto riscontro una drastica caduta del prezzo degli immobili. Milioni d’italiani, con mutuo o meno, che sono ancora nelle secche della depressione. Tutto si è fermato a lungo nel paese del rinvio. Tra la classe media, che va in vacanza a singhiozzo e cerca di limitare il superfluo, si fa largo un sentimento di deprivazione relativa, mentre è impervia la sopravvivenza tra le fasce disagiate. Su milioni di famiglie gravano giovani disoccupati e «neet» che costringono quest’istituzione sociale a riposizionarsi in termini di risorse, spesa e risparmio.
Quanto alla politica, intenta a riposizionare la propria immagine deteriorata con l’aiuto dei media, ha abbandonato i grandi temi di ordine sociale come la classe media, il consumo, le disuguaglianze individuali, familiari e territoriali. Per questo la depressione sociale è sfociata in un distrust crescente verso le istituzioni incapaci di politiche pubbliche di crescita e di equità.
Questi anni di crisi sono stati paragonati per effetti alle macerie lasciate da una guerra. Tuttavia, rappresentano un’opportunità per il Paese e i nuovi governanti di prendere coscienza dello sforzo responsabile collettivo, necessario a ricostruire e a evitare che presente e futuro continuino a scivolare sul piano inclinato del passato.

da Il Sole 24 Ore