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"Il peggio che verrà", di Bernardo Valli

Lo scontro a terra, il corpo a corpo, era inevitabile. Era temuto da entrambe le parti. Ma né Israele né Hamas potevano sfuggire a una battaglia terrestre. Non mi riferisco all’odio irresistibile che alimenta l’animosità di israeliani e palestinesi, ma alla situazione che si era creata e che non lasciava altre soluzioni. Inevitabile dunque e al tempo stesso assurdo l’intervento di Tsahal (52 mila uomini impegnati e altri 18 mila di riserva).
E ALTRETTANTO irrazionale, non ragionevole, il disperato rifiuto della tregua da parte di Hamas (con i suoi circa 20 mila guerriglieri rintanati nei tunnel o tra la popolazione). Sarà difficile agli uni e agli altri sfuggire alle trappole che li attendono. Vi finiscono tragicamente, smarrendovi la vita o l’anima, da quando Gaza è stata evacuata dagli israeliani nel 2005. La rivolta è puntuale, come in un indomabile penitenziario, e la repressione arriva altrettanto puntuale. Israele, tenace, reagisce secondo il principio del Muro di Ferro contro quale devono sbattere i suoi nemici. E Gaza, caparbia, disperata, reagisce ribadendo il suo rifiuto. Non riconosce lo Stato ebraico. È il suo dogma. Il dialogo è un talismano introvabile in quella terra della Bibbia.
L’assassinio dei tre adolescenti israeliani e quello del giovane palestinese bruciato vivo hanno fatto da detonatore a una situazione esplosiva. Spinto dalla disperazione per le difficoltà economiche e politiche la secessionista Hamas aveva appena riannodato i rapporti con l’Autorità palestinese di Ramallah. Avendo le casse vuote, aveva accettato di governare in una posizione subordinata nonostante l’accusa di collaborazionismo rivolta per anni ad Abu Mazen, il capo di quell’Autorità. Sperava di trovare le risorse indispensabili per pagare i quarantamila dipendenti dei servizi amministrativi di Gaza. Le relazioni con gli alleati siriani e iraniani erano ridotti al minimo e l’avvento al potere del generale Abdel Fattah al-Sisi in Egitto aveva provocato la chiusura di quasi tutti i tunnel di Rafah, grazie ai quali gli abitanti della Striscia ricevevano il necessario per vivere. Hamas è una derivazione dei Fratelli musulmani ed è quindi detestata dal nuovo rais del Cairo che ha decimato e imprigionato i membri della Confraternita sulle sponde del Nilo. Quando Al-Sisi ha proposto la tregua, di fatto un cessate il fuoco senza la prospettiva di un accordo più ampio, i dirigenti di Gaza non hanno esitato a respingere la sua iniziativa. Non si fidavano di Al-Sisi e ancor meno degli israeliani che l’avevano accettata senza esitare. Per Hamas una tregua era possibile soltanto se venivano posti sul tappeto le sue rivendicazioni.
Anzitutto la fine del blocco imposto da Israele. L’Ong israeliana Gisha ricorda sul suo sito internet che Gerusalemme continua a controllare larga parte della vita degli abitanti di Gaza: le acque territoriali, lo spazio aereo, persino l’anagrafe e l’unico terminal commerciale. I dirigenti di Gaza vorrebbero che i pescatori potessero uscire in mare fino a sei miglia dalla costa, e non soltanto a tre miglia come adesso. Vorrebbero anche lavorare nei campi situati nella “zona tampone”, ossia lungo i confini con Israele, dove si stende il 35 per cento delle terre coltivabili. Adesso l’accesso è rischioso, o addirittura impossibile, perché gli israeliani sparano a vista. Eppure negli accordi sottoscritti nel 2012 si autorizzavano i pescatori a spingersi lontano dalla costa e i contadini a mettere piede nei loro piccoli poderi.
Hamas chiede inoltre la liberazione dei prigionieri. E la possibilità di raggiungere la Cisgiordania, l’altra parte della Palestina, territorialmente separata. Adesso Tsahal non lo consente.
L’ostilità dei militari egiziani succeduti ai Fratelli Musulmani e i difficili rapporti con Siria e Iran hanno contribuito alla perdita di sessantamila posti di lavoro e hanno portato la disoccupazione al quaranta per cento. Lo straricco Qatar, ancora fedele ai Fratelli musulmani o ai suoi derivati, si è dichiarato disposto
a pagare gli impiegati dall’amministrazione rimasti senza stipendio, ma gli americani si sono opposti al finanziamento di un movimento come Hamas, che figura nell’elenco del terroristi. Si sono allora offerte come intermediarie le Nazioni Unite, ma il ministro degli esteri israeliano, Avigdor Lieberman, l’ha impedito. Tra le rivendicazioni di Hamas, di cui si discute in queste ore al Cairo (dove proseguirebbero i contatti, sia pure non diretti) ci sono, appunto, anche le paghe bloccate dei funzionari e la riapertura dei tunnel di Rafah, lungo il confine egiziano. Nell’attesa dell’intervento terrestre i responsabili di Hamas si ponevano il dilemma: morire nel corso di un’offensiva o lentamente di stenti come dei miserabili? La prima opzione è stata preferita dai gruppi estremisti, quali la Jihad islamica, di fronte ai quali Hamas è un movimento moderato. In quanto alla popolazione che fa da scudo nessuno ci pensa. La scuola dell’Onu in cui sono stati trovati decine di missili non è certamente un caso unico. Israele ha un sofisticato sistema antimissili che annienta i razzi nel cielo di Tel Aviv e di Gerusalemme; Gaza ha la carne umana.
Anche per Israele l’operazione terrestre, il corpo a corpo, era inevitabile. Hamas ha accumulato negli anni migliaia di razzi, di missili a lunga portata, di fabbricazione iraniana o siriana, che nelle crisi scaglia contro le città israeliana sperando di fare vittime. Israele non può vivere con questo incubo, anche se finora l’Iron Dome, il sistema antimissili ha funzionato. Razzi e missili sono sparati da tunnel scavati sotto la città, in mezzo alla popolazione. Da qui il numero delle vittime civili. Forse anche per questo Benjamin Netanyahu ha esitato prima di ordinare l’operazione di terra. Per trovare e distruggere quelle armi bisogna frugare tra gente inerme. Ma ministri influenti del suo governo, Avigdor Lieberman e Naftali Bennett, l’hanno accusato apertamente di debolezza quando è saltato sull’iniziativa egiziana e ha subito accettato la tregua. Hamas l’ha poi aiutato rifiutandola e lasciandogli una sola scelta, quella dei falchi. L’operazione è rischiosa. I guerriglieri islamisti potrebbero fare dei prigionieri. Ed anche dei morti. Ma soprattutto indebolendo Hamas, l’esercito israeliano favorirebbe i gruppi estremisti. E allora verrebbe il peggio.

da La Repubblica