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"Quella via possibile di uscita dal conflitto", di Ugo Tramballi

Immaginatevi un israeliano e un palestinese che discutono degli avvenimenti di Gaza. Per capire perché dopo tante guerre e processi di pace falliti, la tauromachia sembra essere senza fine non serve analizzare il ruolo dell’America, valutare la scomparsa di un vecchio ordine internazionale né l’efficacia di uno nuovo. Il petrolio ha scarsa presa e il dominio del mondo non conta perché Israele e Palestina insieme sono più piccoli dell’Emilia-Romagna.
Immaginatevi dunque un israeliano e un palestinese che discutono: non uno della destra nazional-religiosa ebraica e uno di Hamas. Due nella media che desiderano una soluzione del conflitto purché, comprensibilmente, non sia troppo di danno alla propria parte. Cioè la maggioranza quanto meno relativa dei due popoli.
«Avete già ucciso più di cento bambini», dice il palestinese. «Sono i terroristi che si fanno scudo di loro», risponde l’israeliano. «La nostra è una lotta di popolo, dobbiamo liberare la nostra terra», ribatte il primo. «Da Gaza ce ne siamo andati nove anni fa», insiste il secondo. Il palestinese: «Dalla Cisgiordania no, e continuate ad allargare gli insediamenti». L’israeliano: «Se cessa il terrorismo ce ne andremo anche da lì». «Ma quando abbiamo incominciato a parlare di pace, voi avete raddoppiato gli insediamenti», protesta il palestinese. «Non avremmo mai occupato quei territori se nel 1967 non fossimo stati attaccati, e quando abbiamo offerto di restituirli in cambio della pace, avete rifiutato», insiste l’israeliano. «Abbiamo rifiutato perché nel 1948 voi israeliani avevate occupato più terre di quelle che vi spettavano». «Dovevamo creare uno Stato per accogliere i sopravvissuti dell’Olocausto». «Cosa c’entriamo noi arabi con l’Olocausto? E comunque avete incominciato a venire qui molto prima». «Una presenza ebraica c’è sempre stata in Palestina». «Noi palestinesi siamo qui da centinaia di anni». «Arabi, non palestinesi. I palestinesi non sono mai esistiti».

A questo punto la disputa iniziata su Gaza 2014, sprofonda nei millenni, a Davide e Golia, fra le righe della Bibbia e del Corano. Il dialogo, se continua, è fra sordi. Nel 1996, dopo la morte di Yitzhak Rabin, quando inaspettatamente fu sconfitto da Bibi Netanyahu, Shimon Peres disse che «avevano vinto gli ebrei e perso Israele»: intendendo che il peso del passato aveva schiacciato il presente e il futuro. Tutti i conflitti affondano le loro radici nella storia ma non così in profondità come questo. E se isolate ogni battuta del colloquio – poi non così immaginario – troverete che ognuno afferma una ragione condivisibile. Ricomposte, quelle affermazioni formano un affresco comune di torti e di diritti difficilmente discernibili, a meno che non si scelga un campo per motivi ideologici o non si sia parte in causa della tragedia. In realtà è quasi impossibile cercare l’imparzialità, riconoscendo un insieme di verità comuni, perché i due contendenti pretendono dagli altri un’adesione assoluta. È per questo che il conflitto appare inalterabile e senza via d’uscita. Il confronto fra ebrei e arabi non è solo sopravvissuto al terremoto della fine della Guerra fredda e del bipolarismo. Non c’è mutamento geopolitico che lo abbia condizionato: ogni volta che attorno le cose cambiavano, il conflitto si evolveva anziché trovare una soluzione. Era iniziato alla fine del XIX secolo, quando dominava l’impero ottomano; è continuato nel XX durante il mandato coloniale britannico della Palestina; prima, durante e dopo la Seconda guerra mondiale. Quando nacque Israele erano i sovietici che pensavano di sostenere il giovane Paese socialista, e gli occidentali le monarchie arabe. Invece è successo il contrario. In questi ultimi due mesi di caos le startup israeliane hanno raccolto investimenti esteri per circa un miliardo di dollari: come se esistessero due Israele, Atene e Sparta contemporaneamente. E negli anni ’90, nella fase migliore del processo di pace, la Palestina aveva avuto una crescita economica mai conosciuta prima: questo non ha impedito che dal 2000 l’Intifada ricominciasse, vanificando il miglioramento della qualità della vita dei palestinesi. La razionalità dell’economia non è mai riuscita a scalfire l’irrazionalità del conflitto, col tempo trasformatosi in una faida più che in un confronto fra risorgimenti nazionali. Gli israeliani sembrano crogiolarsi nella loro incapacità di uscire dall’occupazione e i palestinesi in quella di liberarsene. È ingenuo pensare che la coraggiosa iniziativa di papa Francesco potesse offrire una soluzione a un’avversione così profonda fra i due popoli. Tuttavia l’aspetto più irragionevole del perdurare del conflitto è che una soluzione c’è. Esiste, costruita fra alti e bassi durante il processo di pace fra il 1991 e il 2000. Spartizione di Gerusalemme, confini, diritto al ritorno dei profughi palestinesi e colonie ebraiche, sicurezza di Israele e Stato di Palestina, risorse idriche, collaborazione economica. C’è tutto, frutto di una breve fase di pragmatismo e logica diplomatica. Manca solo la volontà di ammettere che la politica è l’arte del compromesso.

Il SOle 24 Ore 22.07.14