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"La lezione di Draghi e il passo da fare", di Federico Fubini

AVEVA una cravatta blu e la faccia di uno che nell’ultimo mese ha dormito poco. Mario Draghi il 26 luglio 2012 a Londra iniziò a parlare con la mano sinistra in tasca, gesticolando appena con la destra. Andò avanti dieci minuti, ma furono poche parole, al minuto sette, a togliere l’Italia da una rotta che la stava portando sugli scogli. Quel giorno di due anni fa la storia d’Europa è cambiata. «C’è un messaggio che voglio darvi», disse l’italiano da nove mesi presidente della Bce.
ALL’INTERNO del nostro mandato», scandì due volte, «la Banca centrale europea farà qualunque cosa serva per preservare l’euro». Draghi prese una pausa e ripartì, deliberato: «E credetemi, sarà abbastanza». In inglese furono 21 parole, ma bastarono a cambiare la psicologia dei mercati e segnarono una svolta. Senza quelle frasi e senza il programma (condizionato) di acquisti di titoli che esse prepararono, sarebbero falliti alcuni Stati sovrani, centinaia di banche e centinaia di migliaia di imprese. L’economia italiana sarebbe una landa desolata, ben più di oggi, la politica in mano a tragici demagoghi.
Ma quel giorno di due anni fa il fiume è stato deviato. Quando parlò Draghi lo spread fra titoli decennali italiani e tedeschi era a 446 punti, un mese dopo era già calato a 335 e d’allora non ha fatto che scendere. L’Europa aveva trovato un’istituzione: il prestatore di ultima istanza che ancora oggi garantisce il sistema, a condizione che al suo interno ciascuno stia ai patti e faccia in qualche modo la propria parte.
L’errore oggi sarebbe pensare che fu solo il colpo di genio di un uomo, il solito stellone italiano. Basta invece andare a risentirsi il modo in cui Draghi quel giorno preparò le sue 21 parole per capire che non è così, e che forse proprio questa è la lezione di allora oggi più attuale e rilevante per il governo di Matteo Renzi. Non ci fu niente di improvvisato quel giorno, ma una lunga tessitura di un certo numero di leader. Draghi fece capire che poteva annunciare la svolta, così difficile da far accettare in Germania, solo perché alle spalle aveva una preparazione: erano serviti mesi di gioco cooperativo fra Berlino, Parigi, Roma e Madrid, per mettere Angela Merkel in condizione di prendere il rischio necessario, quello che nessun cancelliere tedesco vorrebbe mai affrontare: dissociarsi dalla Bundesbank, isolarla, dare il suo (tacito) assenso al corso stabilito da un banchiere centrale italiano. Italia e Spagna avevano sottoscritto i patti di bilancio europei e avviato riforme più o meno convinte, più o meno efficaci. Comunque allora rassicurarono Merkel e crearono per lei e Draghi lo spazio politico per salvare l’Europa senza e contro la Bundesbank. Questo oggi conta, perché l’Europa e l’Italia hanno un bisogno altrettanto disperato dell’aiuto della Bce. Le misure che l’Eurotower ha annunciato a giugno scorso per contrastare la paralisi dei prezzi e la gelata sulla ripresa saranno forse un primo passo. E, come osserva il Wall Street Journal, hanno sostenuto le Borse. Di certo però non bastano a scongiurare il rischio che larga parte dell’area euro, Italia inclusa, sprofondi nella deflazione. È appena il caso di ricordare cosa succede quando gli indici dei prezzi vanno giù, perché gli italiani lo hanno sotto gli occhi ogni giorno: le famiglie rinviano gli acquisti, le imprese rinunciano a investire oggi per non dover vendere a prezzo di saldo domani, i debiti salgono in proporzione al fatturato. Il debito pubblico italiano diventa insostenibile, al punto che c’è chi inizia a suggerire di non onorarlo, senza capire (forse) le conseguenze di un tale consiglio: famiglie più povere, banche in gravi difficoltà, credit crunch, altra deflazione e un altro giro della stessa spirale. La Bce può togliere di nuovo l’Italia e l’Europa dai guai solo se prima o poi farà ciò che hanno già fatto la Federal Reserve, la Banca d’Inghilterra e quella del Giappone: creare moneta per comprare sui mercati almeno mille miliardi di titoli di Stato, di cui quasi 200 italiani. Ma la verità è che oggi questa svolta non è affatto vicina. Draghi e Merkel non hanno lo spazio politico necessario per neutralizzare il veto della Bundesbank come due anni fa, e il governo Renzi non li sta aiutando. Ogni duello mediatico di giornata con Berlino, Bruxelles o Francoforte sulle regole di bilancio, ogni incertezza nelle misure per la crescita, non fa che alimentare in Germania la diffidenza verso l’Italia. Non sorprende che tedeschi o olandesi in queste condizioni rifiutino il rischio di farsi carico di quote del nostro debito per il tramite degli interventi della Bce. Questo caos in Europa paralizza la mano del solo che potrebbe aiutarci, Draghi. Il solo, vale a dire, a parte noi stessi.
 
da La Repubblica