#lanuovauniversità, attualità, università | ricerca

Sostenere l’università e il diritto allo studio serve al Paese

diritto allo studio 2

 

Signor Presidente, Sottosegretario, Onorevoli Colleghi, *

Su impulso della mozione presentata dal collega Pisicchio, oggi discutiamo temi ai quali ho dedicato buona parte della mia attività di parlamentare negli ultimi anni, cioè le politiche universitarie e il diritto allo studio universitario, pertanto molte sono le riflessioni che affido a questo lungo intervento, che chiedo di poter consegnare affinché sia pubblicato integralmente negli atti di seduta.

Preliminarmente anticipo che anche il Partito democratico presenterà una propria mozione, di cui anticipo premesse e impegni nel corso dell’intervento.

Per quanto attiene ai contenuti delle premesse ricorrerò a molti dati di contesto: mi scuso per l’aridità dei numeri e delle percentuali che citerò ma non si possono individuare delle linee di intervento se prima non si osserva la realtà da governare. Non vorrei quindi lasciare cadere nel vuoto la predica del presidente Einaudi del “conoscere per deliberare”, poiché in questo campo, quello dell’accesso agli studi universitari e dell’equa ripartizione delle risorse sul territorio nazionali, c’è già un “groviglio inestricabile”, creato da deliberazioni velleitarie o frettolose. Pertanto, non è più il tempo “di non far niente e frattanto tenere adunanze e scrivere rapporti…” a meno di non voler assistere al progressivo impoverimento culturale, sociale ed economico dei nostri giovani e quindi del Paese.

E’ ormai acclarato che l’Italia – e il Meridione in particolare — soffrano di un increscioso ritardo nella diffusione della formazione universitaria nella popolazione, sia in generale, sia nella fascia più giovane. Nonostante la disinformata vulgata contraria, non siamo un Paese di dottori, anzi! Tutte le analisi internazionali lo confermano. Il rapporto “Education at a Glance” che l’OCSE pubblica ogni anno lo certifica chiaramente; anzi, peggio, certifica che anno dopo anno stiamo arretrando rispetto agli altri paesi.

La percentuale di italiani che inizia gli studi post-secondari è del 42% (EAG 2015, Tabella C3.1), cioè la più bassa in Europa (a parte il Lussemburgo, che però non ha università) e la penultima nell’OCSE, davanti solo al Messico. La media europea è più alta di 21 punti percentuali (63%), quella OCSE (67%) di ben 25 punti. Detto in altro modo, gli studenti universitari italiani dovrebbero aumentare almeno di metà per raggiungere la media europea, dovrebbero più che raddoppiare per raggiungere la Danimarca o il Cile. Se passiamo dagli studenti ai laureati, nella fascia 25-34 anni l’Italia, dopo essere stata a lungo penultima per percentuale di laureati prima della Turchia, occupa adesso l’ultimo posto assoluto con il 24% (EAG 2015, Tabella A1.3a) a fronte di una media europea del 39% e una media OCSE del 41%. L’obiettivo del 40% fissato da Europa 2020 è lontano e irraggiungibile. Per dirla in altro modo, il numero dei laureati italiani dovrebbe aumentare di oltre il 60% anche solo per raggiungere i valori medi internazionali.

Il quadro diventa ancora più difficile se esaminiamo la percentuale di laureati sulla popolazione attiva (25-64 anni) nei paesi dell’OCSE. Non solo l’Italia con il 17% è l’ultima tra tutti i paesi OCSE (EAG 2015, Tab. A1.3a) ma, se analizziamo il dato a livello regionale come ha fatto il gruppo di ricerca coordinato da Giancarlo Viesti nel recente rapporto “Università in declino”, vediamo che questa media è ottenuta con regioni come il Lazio che superano, sia pure di poco, il 20% e regioni come la Puglia e la Sicilia inferiori al 14%, con valori regionali che, tra i paesi partner dell’OCSE, sono superiori solo a quelli nazionali di Cina, Indonesia e Sudafrica.

In tale situazione nemmeno l’andamento delle immatricolazioni, cioè delle nuove iscrizioni, induce a ben sperare. Pubblicato un mese fa, il XVIII Rapporto AlmaLaurea sulla Condizione occupazionale dei laureati conferma che l’andamento delle immatricolazioni dopo l’aumento registrato dal 2000 al 2003 (+19%), legato soprattutto al rientro nel sistema universitario di ampie fasce di popolazione di età adulta, e nonostante la leggera ripresa registrata nell’ultimo anno – ma si tratta di un aumento inferiore al 2% –, dal 2003 al 2015 le Università hanno perso nel complesso quasi 70 mila matricole (-20%). Come ebbe ad affermare il Consiglio Universitario Nazionale nel documento “Le emergenze del sistema” del 2013, è come se in un decennio fosse sparito un ateneo grande quanto l’Università statale di Milano. Se entriamo nel dettaglio delle macro-aree geografiche, il Sud registra una contrazione del 30%, il Centro del 22%, il Nord del 3%. In coerenza con questi dati, sono quelli a livello regionale restituiti dal rapporto di Viesti prima citato: delle 40.000 matricole in meno registrate tra il 2009 e il 2013, ben 27.000 sono ragazzi del Mezzogiorno (Sud e isole): 6.500 matricole in meno sia nelle università campane che nelle siciliane, 5.000 in meno nelle pugliesi.

Questi dati denunciano il profondo divario sociale ed economico che caratterizza le regioni italiane: il calo delle immatricolazioni negli ultimi anni ha interessato l’intero sistema universitario italiano, ma ha colpito in modo differenziato i diversi territori. A pagare il prezzo più elevato di questo depauperamento di capitale umano sono le regioni del Mezzogiorno, continentali e insulari, dove si registra la diminuzione più marcata di immatricolati e i flussi più significativi di mobilità giovanile verso le altre regioni del Paese. Siamo tutti convinti che la mobilità territoriale sia, di per sé, un fenomeno positivo, perché consente ai giovani di talento e con capacità – grazie alle opportunità presenti nei territori di approdo – di potersi esprimersi al meglio, a vantaggio della promozione personale e del progresso sociale: ma quanto accade sotto i nostri occhi non è un fenomeno “circolare”, che porta ricadute positive anche sui territori d’origine, è invece un fenomeno unidirezionale, dal sud al nord.

Ancora, il Rapporto Almalaurea, relativamente ai laureati magistrali a 5 anni dal conseguimento del titolo, evidenzia che tra i residenti al Nord Italia, l’88% ha svolto gli studi universitari e attualmente lavora nella propria area di residenza; l’unico flusso di una certa consistenza vede il trasferimento per lavoro all’estero (7%). Sono i laureati residenti nell’Italia meridionale a spostarsi di più per studio e lavoro: complessivamente costituiscono il 53%. Il 20,5% di loro si sono trasferiti per motivi di studio e non sono rientrati, il 16% dopo aver studiato nella propria area di residenza hanno trovato lavoro al Nord o al Centro (solo il 2% si trasferisce all’estero dopo aver studiato al Sud) e solo l’11% dei laureati del Sud rientra nella propria terra dopo aver studiato fuori.

Non è questo il luogo e il momento per analizzare le cause – in parte anche demografiche, come mostrato da un’analisi condotta da un ricercatore della Banca d’Italia, Pasqualino Montanaro – di un fenomeno così clamoroso e dalle conseguenze di lungo termine così gravi. Esso certamente risente degli effetti generati dalla lunga crisi economica globale e da quella specifica italiana, come dimostrano i dati del rapporto annuale Istat presentati venerdì scorso e sui quali mi soffermo. La ripresa è stata finalmente agganciata, grazie alle politiche del Governo sul mercato del lavoro e ad altre specifiche scelte di natura sociale ed economica per incrementare la domanda interna, ma la disuguaglianza nella distribuzione del reddito è aumentata in dieci anni (1990-2010). Per frenare questa deriva occorrono interventi pre-distributivi, che incidono, in particolare, sui meccanismi che conducono alla formazione dei redditi primari e quindi aiutano gli individui a dotarsi di capacità meglio remunerate sul mercato del lavoro, come ad esempio tutte le politiche di istruzione. Per contrastare la crisi, quindi, molto positivi sono gli ingenti investimenti a favore della scuola messi in campo con la legge 107, che discutemmo un anno fa in questa Aula. Ora, occorre un analogo passo avanti per sostenere i percorsi universitari, perché conseguire un titolo di studio superiore non solo permette di realizzare l’apprezzabile obiettivo di una società forte di competenze di cittadinanza, competitiva e dinamica, ma porta evidenti vantaggi ai singoli cittadini.

Ad esempio quello di vivere di più, poiché il titolo di studio incide sulla speranza di vita, soprattutto per gli uomini. A 25 anni di età, le persone con basso titolo di studio (al massimo la licenza media) hanno uno svantaggio nella speranza di vita di 3,8 anni rispetto ai laureati. Ancora più netta la distanza tra laureati e persone che hanno conseguito al massimo la licenza elementare: 5,2 anni per gli uomini e 2,7 per le donne.

Il rapporto annuale ISTAT fornisce ulteriori informazioni, da approfondire ed incrociare con altri dati per non avvalorare superficialmente le retoriche tesi di coloro i quali ritengano la laurea un inutile pezzo di carta di cui fare a meno se si hanno inventiva e talento. Le cose in realtà sono ben diverse, poiché le condizione di nascita pesano ancora tanto, in Europa e in Italia. Ad esempio, il livello professionale dei genitori e il titolo di godimento dell’abitazione, indicativi delle condizioni materiali nelle quali gli individui si sono trovati nella loro adolescenza, sono correlati significativamente con il reddito dei figli: il vantaggio reddituale è del 17% in Spagna, del 15% in Danimarca, del 14% in Italia, dell’8% in Francia. Nel nostro Paese, poi, il livello di istruzione dei genitori ha un effetto ancora maggiore sul reddito dei figli: gli individui che a 14 anni avevano almeno un genitore con istruzione universitaria o secondaria superiore dispongono di un reddito rispettivamente del 29 e del 26% più elevato di chi aveva i genitori con un livello di istruzione basso.

L’ISTAT certifica poi che la crisi ha certamente eroso il vantaggio occupazionale ottenuto con l’investimento in formazione: il tasso di occupazione di un laureato di 30-34 anni dal 79,5% nel 2005 (dato pre-crisi) è sceso al 73,7% dieci anni dopo. Ma se è vero che l’incremento dell’occupazione nell’ultimo anno è esteso a tutti i raggruppamenti professionali, la dinamica positiva riguarda soprattutto le professioni qualificate. Se poi si associano questi dati a quelli dell’ultimo rapporto Almalaurea emerge che la laurea resta comunque un buon investimento, anche se i confronti con il periodo pre-crisi fanno emergere quanto ancora ci sia da recuperare: a un anno dalla laurea il tasso di occupazione è del 67%, vale a dire un punto in più rispetto all’indagine dell’anno scorso ma il 15% in meno rispetto al 2008. Però è altrettanto vero che ai ragazzi in possesso del solo diploma le cose sono andate peggio, con tassi di disoccupazione più elevata e redditi inferiori. Nel periodo della crisi, cioè tra il 2007 e il 2014 la disoccupazione per il laureati tra i 25 e i 34 anni è cresciuta di 8,2 punti percentuali, passando dal 9,5 al 17,7 mentre tra i diplomati, tra i 18-29 anni, è più che raddoppiata – cioè del 16,9% – andando dal 13,1 al 30%.

La 21esima edizione del Rapporto retribuzione di Od&M consulting, poi, rileva che il neolaureato in ingresso guadagna di più di un lavoratore senza laurea con alle spalle già 3-5 anni di anzianità. Inoltre, il titolo di laurea oltre a garantire migliori guadagni, mitiga anche il differenziale retributivo di genere, poiché tra i laureati le differenze retributive tra uomini e donne sono più contenute di quelle tra i non laureati.

Insomma, laurearsi fa bene a se stessi e al Paese, ma molti sono gli ostacoli che si frappongono al raggiungimento di quell’obiettivo.  Tra questi, non possiamo non citare un sistema di diritto allo studio debole, di supporto marginale alle famiglie di studenti universitari per affrontare i costi degli studi. La gracilità del sistema determina una perdita netta di talenti e di opportunità, individuali e per l’intero Paese, anche perché specializzati socialmente: al pari di quanto avviene in molti paesi europei, i giovani che appartengono ai ceti più deboli – in assenza di specifiche politiche di sostegno, come vedremo fra poco – intraprendono sempre meno la strada della formazione universitaria, perpetuando l’immobilità sociale ed economica, la rigidità delle rendite di posizione e la sclerosi delle corporazioni di cui soffre l’Italia.

Degli studenti italiani solo l’8,2% ottiene una borsa di studio e solo il 10,3 è destinatario di un qualche intervento di diritto allo studio, a fronte di valori superiori al 30% in Francia, Inghilterra e Svezia, superiori addirittura all’80% in Olanda, Danimarca, Finlandia. Per giunta, degli studenti valutati come idonei a ricevere la borsa di studio, solo il 75% la riceve effettivamente; gli altri devono contentarsi di ricoprire la non esaltante figura, unicum in Europa, di “idoneo non beneficiario”. A livello regionale, la percentuale di idonei non beneficiari è inferiore al 10% in tutte le regioni del Nord e del Centro salvo Piemonte e Lazio mentre è superiore al 40% in Campania, Calabria, Sardegna e appunto Piemonte, con un picco negativo in Sicilia in cui supera il 65%. Eppure la borsa di studio si dimostra strumento abbastanza efficace: come mostra una ricerca condotta dall’Osservatorio regionale del Piemonte sotto la guida di Federica Laudisa, i borsisti abbandonano gli studi universitari il 13% di volte in meno dei non borsisti e conseguono in media 13 crediti formativi in più ogni anno rispetto ai non borsisti.

Il quadro non migliora se osserviamo il dato delle contribuzioni universitarie: per entità delle tasse pagate dagli studenti, l’Italia è al terzo posto in Europa dopo la Gran Bretagna e l’Olanda, con poco meno di 2000 euro di media tra tutti gli studenti (tab B5.2), quando in molti paesi europei  tra cui la Germania e tutte le nazioni scandinave, l’istruzione universitaria è gratuita o quasi.

La lunga elencazione di dati quantitativi credo sia sufficiente per misurare sia la gravità del fenomeno di profonda carenza nel nostro Paese di studenti universitari e di laureati sia di bassa equità sociale nei meccanismi di sostegno al diritto allo studio universitario. Ritengo anche che non possa essere ulteriormente trascurata la sperequazione che esiste, sotto questo aspetto come sotto molti altri, tra i diversi territori e che probabilmente è una delle cause delle gravi difficoltà economiche e sociali e della maggiore difficoltà di ripresa delle regioni del Mezzogiorno.

E’ dunque opportuno che l’Aula rifletta su questi problemi per individuare insieme alcuni provvedimenti che ne possano gradualmente garantire la soluzione.

A mio giudizio, sono almeno quattro le direttrici di intervento da intraprendere con particolare urgenza. Tre sono relativi al diritto allo studio, il quarto attiene alle modalità di riparto del Fondo di finanziamento ordinario delle università.

Nell’ultima legge di stabilità il Governo da assunto una scelta giusta ed importante per consentire al sistema del diritto allo studio di essere più efficace: rispetto al 2015, i finanziamenti statali per l’anno in corso e che dallo Stato vengono trasferiti alle regioni – poiché a legislazione vigente è loro la competenza in materia di diritto allo studio – sono infatti aumentati di 55 milioni, così che il Fondo è passato da 162 a 217 milioni. Non si sottovaluti l’importanza di questo incremento: per farlo basta ricordare che è solo la seconda volta nell’ultimo decennio (era accaduto nel 2009) che si supera la soglia dei 200 milioni, una soglia che per gli esperti del settore è una sorta di “tetto di cristallo”. Ma se vogliamo però infrangere definitivamente quel tetto di cristallo occorre che dalla prossima legge di stabilità l’incremento di quest’anno sia definitivamente stabilizzato e negli anni futuri progressivamente aumentato, per dare certezza al sistema e per eliminare gradualmente la figura dello studente idoneo alla borsa di studio ma non beneficiario per mancanza di finanziamento.

Ma bisogna intervenire anche su un altro aspetto, richiamato di recente in una risoluzione approvata all’unanimità in Commissione Istruzione: bisogna cioè emanare quanto prima il decreto, già in ritardo di tre anni (si tratta del decreto applicativo previsto dall’articolo 7, comma 7 del decreto legislativo 68/2012 che detta la normativa di principio sul diritto allo studio universitario), destinato ad intervenire su due punti essenziali della normativa del diritto allo studio universitario. Da un lato dovrebbe determinare, a norma della Costituzione, i livelli essenziali delle prestazioni (LEP) del diritto allo studio e i requisiti di merito dello studente e di reddito della famiglia per accedere a queste prestazioni, per cui la sua assenza pone su basi fragili tutto il sistema, ancora oggi affidato ad un decreto del Presidente del Consiglio del lontano aprile 2001, emanato in tutt’altra situazione economica, sociale e persino costituzionale. Da un altro lato il decreto dovrebbe determinare i nuovi criteri di ripartizione tra le regioni del fondo integrativo, per la quale ancora oggi si usa un modello vecchio di 15 anni che, alla luce dei dati che ho richiamato poco fa, ha dimostrato nel tempo di non garantire né efficienza né efficacia, poiché non tiene conto del reale fabbisogno regionale bensì di quante risorse proprie le singole regioni investono nel settore. Questa impostazione, se da una parte premia le scelte politiche, virtuose di alcune regioni, dall’altra finisce per penalizzare i diritti dei ragazzi che vivono nelle regioni disinteressate al tema e che, come ricordato, sono concentrate prevalentemente al Sud. È anche in questo meccanismo sta – almeno in parte – la ragione che spinge gli immatricolati meridionali a migrare in altre regioni, specie del Nord: cioè la ricerca di un beneficio – una borsa di studio, un posto letto o l’esenzione dalle tasse universitarie – che gli consenta di affrontare il percorso di studio e che nella propria regione non viene erogato. È del tutto evidente che, nel rispetto delle prerogative delle regioni in materia, criteri di riparto basati sul fabbisogno impongono anche una omogeneità, tra le regioni, dei parametri con i quali si definisce la platea degli idonei beneficiari. Le decisioni su questi aspetti non sono più procrastinabili e ritengo che il Parlamento possa dare un contributo affinché si individui un corretto punto di mediazione tra le esigenze dei diversi attori del sistema – Ministero, regioni, università e studenti.

Oltre al diritto allo studio, altro fronte sul quale ragionare insieme è certamente quello della contribuzione universitaria: quelle che gli studenti chiamano abitualmente “tasse” non appaiono, infatti, essere ben allineate col dettato costituzionale della progressività dell’imposizione e del diritto di tutti gli studenti capaci, meritevoli e privi di mezzi di raggiungere i gradi più alti degli studi. Stiamo parlando di poco meno di un miliardo e mezzo – per l’esattezza 1.496837119, dato dal bilancio di previsione assestato al 31.12.2014 – di gettito proveniente dagli studenti per l’iscrizione ai corsi di laurea, ai corsi di laurea magistrale e ai corsi del vecchio ordinamento: una cifra ragguardevole, che giustifica quel nostro terzo posto per tassazione in Europa richiamato poco fa, e che diventa ancora più significativa se ricordiamo che il trasferimento statale agli atenei per il loro ordinario funzionamento non raggiunge i sette miliardi.

Se da un lato quindi le università non potrebbero fare a meno dei contributi versati dagli studenti, che coprono una parte ormai notevole dei loro bilanci, né sembra opportuno ridurre gli spazi di autonomia finanziaria che la legge attribuisce agli atenei stessi, occorre però individuare sistemi di calcolo della contribuzione in grado di garantire la progressività dell’imposizione e la salvaguardia dei redditi bassi e del ceto medio impoverito. Gli strumenti efficaci, come il nuovo ISEE introdotto nel 2015, esistono.

Quindi, un’altra direttrice di lavoro potrebbe essere quella di valutare l’opportunità di prefigurare un sistema che prevede – ad esempio – una no-tax area per gli studenti attivi e di famiglia a reddito e patrimonio molto bassi, una progressività delle tasse per gli studenti di famiglie con ISEE superiore alla soglia della no-tax area ma a reddito basso e medio-basso e una adeguata compensazione agli atenei per il calo di gettito provocato dall’introduzione della no-tax area. La VII Commissione ha avviato da tempo l’esame di due proposte di legge (una a mia prima firma, l’altra a firma del collega Vacca), corredato anche da audizioni e specifici approfondimenti: si tratta ora di trovare un corretto punto di mediazione tra le ipotesi in campo.

Mi soffermo ancora sul tema della contribuzione universitaria per auspicare la soluzione di un problema serio lasciato da sempre in ombra. Tutti gli studenti idonei, beneficiari o meno di borsa di studio, costituiscono già per legge una sorta di no-tax area poiché sono esentati dal versamento delle tasse, ma gli atenei interessati non hanno mai avuto alcun ristoro della mancata contribuzione, coll’effetto veramente poco costituzionale di una qualche disincentivazione per un ateneo ad arruolare studenti capaci e meritevoli ma privi di mezzi!

Per descrivere l’ultima linea di intervento – fermo restando che valuteremo nel merito le altre proposte che dovessero scaturire dalla discussione – devo premettere qualche considerazione sulla ripartizione tra le università statali del fondo di finanziamento ordinario, quello destinato a coprire tutte le spese di funzionamento, compresi gli stipendi del personale. A legislazione vigente questa ripartizione è effettuata sulla base di una serie di norme e impegni vari. In particolare la quota più ampia del fondo da ripartire (nel 2015, 4,8 miliardi su 6,9) è quella chiamata “quota base”. La parte della quota base spettante a ciascuna università si calcola – o meglio dovrebbe essere calcolata – sulla base del costo standard per studente in corso, a sua volta calcolato mediante una complessa formula introdotta da un decreto ministeriale a fine 2014.

Il costo standard è stato finora utilizzato una sola volta nel 2015 e per ripartire solo il 25% della quota base. Questa prima e unica applicazione ha consentito di mettere in luce i pregi di questo strumento che è certamente innovativo, soprattutto per la trasparenza dei meccanismi di calcolo, ma ne ha evidenziato anche alcuni aspetti che meriterebbero un’analisi approfondita.

Ad esempio, per quanto riguarda il cosiddetto addendo perequativo del costo standard che dovrebbe per legge essere commisurato ai “differenti contesti economici, territoriali e infrastrutturali in cui opera l’università”, si può verificare che esso pesa per una percentuale minima sul costo standard totale per alcune regioni (meno del 6% per la Sicilia, circa del 3% per la Sardegna) sebbene i divari territoriali con la Lombardia (che è assunta come valore di riferimento) siano ovviamente assai più pronunciati. Senza dilungarmi su aspetti strettamente tecnici, anche la numerosità ottimale delle classi di studenti regolari per corso – parametro utilizzato per calcolare il costo standard del personale – determinata in misura eguale per tutti gli atenei italiani, non tiene conto delle diverse densità di popolazione residente, della loro attitudine ad immatricolarsi in loco, della mobilità territoriale e delle carenze infrastrutturali delle aree interne e marginali del Sud, continentale e insulare, come del Nord, finendo col penalizzare gli atenei che vi hanno sede.

Ai più attenti osservatori, non sarà sfuggito che il costo standard fa riferimento solo agli studenti regolari, cioè in corso. Ora, non entro nella più delicata questione di come e se conteggiare gli studenti fuori corso, ma approfitto dell’occasione per porre all’attenzione dell’Aula una questione, datata e mai evasa: quella riguardante gli studenti universitari cosiddetti part-time. La nozione esiste già ma, nei fatti, il sistema universitario non l’ha mai declinata come l’evoluzione della società e dell’organizzazione universitaria richiederebbero, sebbene il problema fosse stato già perfettamente individuato nel 1998 dal Rapporto Martinotti. La possibilità per lo studente di definire la durata del percorso di studi in base, ad esempio, alle proprie competenze e alle esigenze di esperienze extra-universitarie è, purtroppo, estranea all’agenda universitariae; ma nel sistema è marginale la stessa figura dello studente part-time. Accade anche nei calcoli del costo standard, sebbene il numero di studenti che svolgono qualche forma di attività lavorativa (anche in forme non “regolari”) è di certo notevole: per i laureati nel 2015 circa il 65%. I motivi? Mantenersi agli studi – stante la debolezza del diritto allo studio, su cui ci siamo soffermati –  e alternare lo studio ad esperienze di lavoro, a vantaggio di entrambi, in un sistema segmentato di studi universitari (laurea triennale, laurea magistrale, master, dottorato di ricerca) e in un mondo del lavoro che tende ad apprezzare questo atteggiamento degli studenti, in fondo anticipatore del lifelong learning a cui la società attuale aspira. Il rapporto annuale ISTAT e il Rapporto Almalaurea confermano che nella ricerca di occupazione è un concreto fattore di vantaggio aver svolto lavori già durante il percorso di studi: la probabilità di essere occupato aumenta infatti di circa due volte, a conferma che le competenze trasversali che associano saperi, abilità e attitudini sperimentate in esperienze parallele al percorso universitario sono carte vincenti per l’ingresso nel mondo del lavoro. Anche l’eventuale partecipazione a programmi di promozione della mobilità studentesca all’estero (quali ad esempio il programma Erasmus), si associa a maggiori opportunità di trovare un lavoro ottimale, anche se solo il 13,6% dei laureati nel 2015 ha potuto partecipare a questa mobilità poiché le spese di trasferimento e di soggiorno all’estero sono, di fatto, a carico degli studenti stessi.

Sarebbe quindi utile valutare un intervento per portare allo scoperto lo studente part-time per quantificare meglio il costo standard degli studenti, senza dover ricorrere all’attuale sistema on-off (1 gli studenti in corso, 0 gli studenti fuori corso) che è insito nell’attuale formula di calcolo. Andare incontro alle esigenze dell’utenza e non viceversa, dovrebbe essere un obiettivo da perseguire, specie per un sistema che ha bisogno di guadagnare studenti e non di perderli.

Tutto ciò premesso, parrebbe allora opportuno valutare un approfondimento dei meccanismi di calcolo del costo standard per il 2017 in modo da verificare attentamente e, se è il caso, da ridurne gli eventuali effetti distorsivi sulla ripartizione del fondo ordinario di finanziamento, con particolare attenzione alle università che hanno sede nelle aree interne e marginali del Paese.

Non si tratta, voglio dirlo chiaramente, di una proposta per affossare il costo standard, al contrario si invoca una riflessione puntuale su specifici indici di calcolo per poterlo migliorare, in particolare per rafforzarne gli effetti di perequazione, affinché sia sempre più uno strumento equo di finanziamento del sistema.

Ho descritto quattro direttrici di lavoro, di un lavoro impegnativo ma non più procrastinabile se vogliamo realizzare una società basata sulla conoscenza, quindi una società solidale, sostenibile e smart (intelligente), in grado di affrontare le sfide della globalizzazione, della ristrutturazione delle gerarchie economiche di natura planetaria e del mutamento demografico dovuto ai movimenti migratori e alle trasformazioni della struttura delle popolazioni delle società mature, come la nostra. Il tempo per farlo è ora.

*questo è il testo che ho consegnato alla Presidenza della Camera affinché sia integralmente riportato dei resoconti della seduta d’Aula: l’ho fatto perché si tratta di un testo molto lungo, del quale non avrei potuto dare compiuta lettura. Nei minuti a disposizione per il mio intervento ne ho riassunto i tratti salienti